Killers of the Flower Moon

(Killers of the Flower Moon)

Regia di Martin Scorsese

con Leonardo DiCaprio (Ernest Burkhart), Robert De Niro (William Hale), Lily Gladstone (Molly Kyle), Jesse Plemons (Tom White), Brendan Fraser (W.S. Hamilton), John Lithgow (procuratore Leaward), Tantoo Cardinal (Lizzie Q), Scott Shepherd (Byron Burkhart), Barry Corbin (becchino Turton), Jason Isbell (Bill Smith).

PAESE: USA 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 206′

Fairfax (Oklahoma), anni venti. Grazie al petrolio scoperto nelle loro terre, gli indiani della nazione Osage sono diventati ricchissimi. Il loro denaro fa gola ai bianchi, che non si accontentano più di fargli soltanto da amministratori, come deciso dallo stato, ma desiderano mettere le mani sui loro diritti petroliferi. Il potente William Hale, che si proclama amico dei nativi ma è in realtà interessato al loro patrimonio, convince l’imbelle nipote Ernest a sposare la Osage Molly, per poi manipolarlo affinché lo aiuti a far fuori chiunque si ponga tra lui e la ragguardevole eredità della donna. Venuto a conoscenza dell’impressionante serie di delitti avvenuti nella piccola contea di Fairfax, il presidente Coolidge manda gli agenti del neonato FBI ad indagare…

Scritto dal regista con Eric Roth, il film si basa su un incredibile storia vera raccontata dal giornalista David Grann nel libro-saggio Gli assassini della terra rossa (titolo originale Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI), uscito nel 2017. La prima bozza della sceneggiatura, fedele al romanzo, manteneva il punto di vista degli agenti dell’FBI, con White protagonista (che infatti in principio doveva essere interpretato da DiCaprio). Scorsese decide di spostare il focus sui cattivi e sulla rete di connivenze e delitti che questi, inizialmente indisturbati (perché un indiano morto, anche se ricco, rimaneva sempre e comunque un indiano), poterono instaurare. Il risultato è un potente post-western con molte più automobili che cavalli, in cui Scorsese racconta con precisione antropologica un luogo mai raccontato, in cui gli indiani erano i ricchi e i bianchi (apparentemente) i loro sguatteri, per riflettere ancora una volta (come aveva già fatto con Gangs of New York) sugli albori violenti del capitalismo statunitense, così luccicante da contagiare anche i nativi, che non esitano ad assumere le peggiori abitudini dell’uomo bianco arricchito. Basterebbe soffermarsi sulle prime immagini, con la preziosa spiritualità indiana inebriata dal nero del petrolio sgorgante, per capire quanto Scorsese riesca ancora ad essere fortemente immaginifico e simbolico. Il regista costruisce la suspense di un giallo nonostante si conoscano sin dall’inizio i colpevoli degli omicidi, e dimostra di non aver mai perso il gusto di raccontare, di muovere la macchina da presa non tanto SOPRA quanto TRA i personaggi (memorabili i movimenti in piano sequenza di alcune scene concitate, ambientate dentro le mura delle case), di sfruttare la musica (memorabile, di Robbie Robertson) per dettare il ritmo in crescendo della narrazione.

Forse il suo è diventato un cinema più classico, più lineare, ma sempre magnifico da vedere. Arriva persino a rinunciare alle consuete parentesi ironiche, quasi a sottolineare che non c’è davvero nulla da ridere. Non a caso è il regista stesso, nello straordinario finale in teatro, a rivelarsi come narratore esterno, ribadendo che bisogna continuare a raccontare la verità, e che il cinema deve ancora essere civilmente impegnato. Forse per questo è il suo film più politico, più consapevole. Magnifiche interpretazioni dei tre attori di testa, che riescono a tratteggiare tre personaggi realistici, credibili, eppure potentemente simbolici: l’avido ma imbelle Ernest, malleabile e stolto, perennemente diviso tra la congenita attitudine all’arricchirsi smodatamente, anche nelle maniere più vili, e l’amore per la moglie Molly, l’unica persona ad averlo amato in maniera disinteressata; l’altrettanto avido William Hale, molto più scaltro e intelligente del nipote, convinto di essere superiore a tutti e tutto, rappresentazione perfetta del capitalismo USA sfrenato e disumano (il parente più prossimo del personaggio è probabilmente il Noah Cross di John Huston in Chinatown di Polanski); infine Molly, l’unico personaggio positivo del film, incarnazione dell’abnegazione femminile e della fierezza del popolo indiano, da sempre bistrattato eppure ancora unito e orgoglioso.

Film scorsesiano al 100%: il tema della “normalità” del delitto e il fatto che Ernest cada portandosi dietro tutti i suoi complici, come nell’indimenticabile Goodfellasrivelano che tra i gangster e questi avidi capitalisti non c’è poi questa grande differenza. Pubblico e critica si sono lamentati per l’eccessiva lunghezza, e può essere che in sala un film di tre ore e ventisei minuti (tre in meno del precedente The Irishman) sia faticoso. Ma è pur vero che è davvero impresa ardua identificare una scena o anche solo un’inquadratura che possa ritenersi di troppo. Dedicato al musicista Robbie Robertson, morto durante la fase di post-produzione. Fotografia (straordinaria, soprattutto in notturna) di Rodrigo Prieto, montaggio della fidata Thelma Schoonmaker. Prodotto da AppleTv, ha avuto comunque una larga distribuzione nelle sale prima di essere reso disponibile sulle piattaforme di streaming (cosa che non era accaduta a The Irishman, prodotto da Netflix). Presentato a Cannes fuori concorso e accolto da molti applausi. Ben dieci nomination agli Oscar (film, regia, attrice protagonista a Gladstone, attore non protagonista a De Niro, fotografia, montaggio, costumi, scenografia, colonna sonora, canzone per Wahzhazhe – A Song For My People di Scott George) ma, nell’anno del trionfo di Oppenheimer, nemmeno una statutetta. Incredibile la mancata nomination a DiCaprio. Anche se con un prodotto decisamente diverso, Scorsese aveva già riunito i suoi due attori feticcio nel 2015, con l’ironico cortometraggio The Audition (16′).

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