Drive-Away Dolls

(Drive-Away Dolls)

Regia di Ethan Coen

con Geraldine Viswanathan (Marian), Margaret Qualley (Jamie), Beanie Feldstein (Sukie), Colman Domingo (il capo), Pedro Pascal (Santos), Bill Camp (Curlie), Matt Damon (senatore Channel), Joey Slotnick (Arliss), C.J. Wilson (Flint), Miley Cyrus (Tiffany Plastercaster).

PAESE: Inghilterra, USA 2024
GENERE: Commedia
DURATA: 84′

Filadelfia, 1999. Due amiche lesbiche – la disinibita e promiscua Jamie e la repressa Marian – decidono di noleggiare un’auto e partire per Tallahassee dove abita la zia della seconda. Per un errore dell’impiegato del noleggio, si ritrovano a guidare una vettura che scotta e che fa gola a un trio di criminali che lavorano per un senatore repubblicano candidato alla presidenza.

Primo film di finzione di Ethan Coen senza il fratello Joel, che aveva già esordito in solitaria tre anni prima con l’ottimo Macbeth (2021) con Denzel Washington. Tanto quanto è cupo, oscuro, profondo e raffinato il film di Joel, tanto è colorato, scanzonato, leggerissimo quello di Ethan, che filma una vecchia sceneggiatura scritta da lui con la moglie Tricia Cooke, già montatrice dei film girati in coppia dai due fratelli. Qualcuno l’ha definita, a ragione, una commedia queer on the road (la stessa Cooke si identifica come queer), e in effetti ci sono tutti gli stereotipi sia del buddy-movie on the road sia della commedia saffica che spopola ormai da diversi anni. Il ribaltamento dei topos classici del noir (basti pensare al contenuto della valigetta/macguffin della vicenda) rivela che Coen non ha dimenticato il cinema fatto con il fratello (e ci mancherebbe!) nè le rotture dell’altro alfiere del post-modernismo anni novanta, ovvero Tarantino, ma il film non è nulla di più che una coppia sbiadita (nonostante i colori sgargianti) dei loro film migliori, privo di personaggi di contorno davvero irresistibili (eccezion fatta forse per la Sukie di Feldstein), affidato a una trama fin troppo esile e a dialoghi carini ma non impagabili, politicamente scorretti quanto si vuole (è probabilmente il film con più dialoghi sui vibratori della storia del cinema) ma mai davvero graffianti, e alla fine la riuscita dell’opera sembra affidata esclusivamente alle doti delle due attrici protagoniste, in effetti molto brave e in parte. Davvero brutte, invece, le animazioni in CG degli inserti psichedelici e dei titoli di coda. Per ora Joel batte Ethan abbondantemente, ma si vedrà cosa ci riserva il futuro. Forse per evitare che si perdessero accenti e trovate linguistiche affidate allo slang geografico e temporale della vicenda, il film è arrivato in sala con sottotitoli ma senza doppiaggio. Musiche del coeniano Carter Burwell.

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Macbeth (2021)

(The Tragedy of Macbeth)

Regia di Joel Coen

con Denzel Washington (Macbeth), Frances McDormand (Lady Macbeth), Corey Hawkins (Macduff), Alex Hassell (Ross), Bertie Carvel (Banquo), Brendan Gleeson (Re Duncan), Harry Melling (Malcolm), Miles Anderson (Lennox), Brian Thompson (assassino), Scott Subiono (assassino), Moses Ingram (Lady Macduff), Lucas Barker (Fleance), Kathryn Hunter (le streghe), Stephen Root (il portiere).

PAESE: USA 2021
GENERE: Drammatico
DURATA: 105′

Mentre torna vincitore da una battaglia, il condottiero Macbeth incontra tre streghe che gli predicono un futuro da re. Ossessionato dalla profezia, spronato dalla moglie assetata di potere, elimina il sovrano e ne prende il posto. Divenuto un tiranno sanguinario, scivola pian piano nella follia.

Dalla tragedia in cinque atti (1605-1608) di William Shakespeare, adattata dallo stesso Coen che, per la prima volta, lavora in solitaria senza il fratello Ethan. Nel sottolineare la grande attualità della tragedia e la sua natura di apologo sul potere e sui suoi effetti (negativi), Coen guarda al cinema del passato ma punta, in maniera se possibile maggiore rispetto ad Orson Welles (che girò la sua versione nel 1948), ad un’essenzialità estrema che cela il desiderio di raccontare gli uomini (e le donne) e i loro sentimenti prima di tutto, aspirando alla parabola universale. Per questo il regista prosciuga tanto il testo quanto gli stilemi della sua rappresentazione, inserendo i personaggi dentro scenografie minimali, esaltate da un bianco e nero di grande potenza espressiva e da un uso espressionista della luce (fotografia di Bruno Delbonnel). La scena in cui Macbeth cammina verso il compimento dell’omicidio che darà il via a tutto quanto, con la luce che filtra dagli archi e scandisce sukl suo volto l’alternarsi di luce/buio (e dunque di bene/male) è un pezzo di grandissimo cinema.

Ma è raffinata anche la dimensione sonora, fatta di molti rumori che paiono rintocchi (colpi alle porte, gocce d’acqua e di sangue che cadono) e sottolineano una delle chiavi di lettura nuove scelte dal regista: rispetto al testo originario, Lord Macbeth e sua moglie sono ormai avanti con l’età e impossibilitati a mettere al mondo dei figli, e dunque la loro disperata ossessione per il potere, per il diventare qualcuno, è anche un tentativo di fuggire alla morte, di fare qualcosa di grande prima di passare all’altro mondo. E i rintocchi continui sono il simbolo di un tempo che sta per scadere. Ineluttabile come un noir, dunque, e questo lo rende un film coeniano al 100%. Interessante l’uso del primo piano, forse debitore del cinema di Dreyer, qui sfruttato per esaltare la presenza umana DENTRO le inquadrature, non a caso affidate a un desueto formato di 1,33:1 (quello dei tempi del muto, per intenderci). Gigantesca interpretazione di Washington, un po’ rigida quella della McDormand (moglie del regista e con lui anche produttrice). Musiche di Carter Burwell, abituale collaboratore dei fratelli Coen. Prodotto e distribuito da Apple TV+ e girato interamente in studio. Tre candidature agli Oscar (Washington, Delbonnel, e le scenografie di Stefan Dechant e Nancy Haigh) ma nessuna vittoria.

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Tarantola

(Tarantula!)

Regia di Jack Arnold

con John Agar (dottor Matt Hastings), Mara Corday (Stefania “Steve” Clayton), Leo G. Carroll (professor Gerald Deemer), Nestor Paiva (sceriffo Jack Andrews), Ross Elliott (Joe Burch), Edwin Rand (tenente Nolan), Raymond Bailey (professor Townsend), Hank Patterson (Josh), Bert Holland (Barney E. Russell).

PAESE: USA 1955
GENERE: Fantascienza
DURATA: 80′

Una tarantola, divenuta gigantesca in seguito a sconsiderati esperimenti, semina il terrore nella piccola cittadina di Desert Rock, in Arizona. Il medico locale, aiutato da una bella ricercatrice, cerca di fermarla.

Ispirato nella premessa a No Food For Thought, un episodio della serie televisiva Science Fiction Theatre diretto dallo stesso Arnold e scritto da Robert M. Fresco (qui accreditato come sceneggiatore insieme a Martin Berkeley), è il secondo film di fantascienza sugli insetti giganti dopo il pregevole Assalto alla Terra (1954) di Gordon Douglas. Una metafora del clima di paranoia della guerra fredda e, in maniera ancor più esplicita rispetto al precedente film di Arnold, Il mostro della laguna nera, una riflessione sui rischi della scienza e sulla natura oltraggiata che si ribella. E infatti alla fine, nonostante l’annientamento del mostro, non c’è nessuna vera vittoria. Memorabili effetti speciali, regia solida, ottima ambientazione desertica, zero cedimenti di ritmo e parentesi horror/splatter decisamente audaci per l’epoca. Quello di Arnold rimane un cinema artigianale, ma di grande qualità e spessore. Nei panni del comandante dello squadrone di aerei che bombarda la tarantola spunta, pur col volto coperto dal respiratore, un 24enne Clint Eastwood. Ambientato in un’immaginaria cittadina dell’Arizona, fu in realtà girato in California, su set solitamente utilizzati per i film western.

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Assalto alla Terra

(Them!)

Regia di Gordon Douglas

con James Whitmore (sergente Ben Peterson), Edmund Gwenn (professor Harold Medford), Joan Weldon (dottoressa Patricia Medford), Onslow Stevens (generale O’Brien), James Arness (agente Fred Edwards), Sean McClory (maggiore Kibbee), Chris Drake (agente Blackburn), Fess Parker (Alan Crotty), Sandy Descher (la bambina).

PAESE: USA 1954
GENERE: Fantascienza
DURATA: 84′

In un paesino del Nuovo Messico si scopre l’esistenza di gigantesche, fameliche formiche, probabilmente mutate in seguito ai test nucleari del 1945. Una regina riesce a raggiungere Los Angeles e a nidiare nella rete fognaria…

Prodotto da Warner Bros, da un’idea di George Worthing Yates adattata Russell S. Hughes e Ted Sherdeman, il primo e forse il più celebre degli horror fantascientifici sugli insetti giganti, che ebbero grande fortuna soprattutto negli anni cinquanta e sessanta. Ritmo serrato, sviluppi credibili, una buona dose d’ironia e un’accorata riflessione sui rischi dell’era atomica (le formiche sono mutate in seguito al Trinity Test del 1945), sottolineata dal finale tutt’altro che vittorioso. Memorabili e davvero inquietanti i primi 30′, nei quali Douglas costruisce una suspense incredibile senza mostrare praticamente nulla (le formiche giganti si rivelano soltanto alla mezz’ora). Se ne ricorderà Spielberg vent’anni dopo nel girare Lo squalo. Interessante anche il sottotesto sociale: gli unici testimoni attendibili (e dunque gli unici che davvero aiutano il team di ricerca) sono matti, vagabondi e ubriaconi. Il titolo originale si riferisce all’espressione della bambina che, risvegliatosi dallo stato catatonico in cui è sprofondata dopo l’incontro con le formiche, urla “them”, loro, riferendosi agli insettoni (in italiano urla “eccole!”). Ottima fotografia di Sidney Hickox. Un piccolo cult.

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Detour – Deviazione per l’inferno

(Detour)

Regia di Edgar G. Ulmer

con Tom Neal (Al Roberts), Ann Savage (Vera), Claudia Drake (Sue Harvey), Edmund MacDonald (Charles Haskell Jr.), Tim Ryan (il proprietario della taverna), Esther Howard (Gladys, la cameriera), Pat Gleason (il camionista alla taverna), Don Brodie (negoziante di auto usate).

PAESE: USA 1945
GENERE: Noir
DURATA: 69′

Il pianista spiantato Al Roberts lascia New York per raggiungere la fidanzata cantante Sue a Los Angeles. Lungo il tragitto si fa dare un passaggio da un uomo che però muore improvvisamente e Al, convinto che darebbero la colpa a lui, si dà alla macchia e assume l’identità del morto. Ma durante la fuga si sbaglia a dare a sua volta un passaggio a una bionda, che capisce come stanno le cose e inizia a ricattarlo. Quando anche lei muore «per sbaglio», a lui non resta che riprendere a girovagare in attesa di essere arrestato.

Da un romanzo di Martin Goldsmith, anche sceneggiatore. Girato in sei giorni con un budget di appena ventimila dollari, interamente filmato in studio e tutto ambientato in interni o in auto (anch’essa ricostruita in studio, col trasparente), un noir memorabile nel quale Ulmer riesce a fare di necessità virtù costruendo, grazie alle pochissime location e a una regia rigorosa, un atmosfera opprimente e ineluttabile. Gli stereotipi del genere (la femme fatale, la fuga col malloppo, lo scambio di persona) sono prosciugati e portati all’essenza per dipingere un apologo universale sul destino ingiusto e beffardo, ma anche sull’avidità umana della quale Savage riesce a tessere una rappresentazione decisamente iconica. Tanto nello scivolare verso l’assurdo quanto nel tema dell’individuo che soccombe alla paura di non essere creduto o preso sul serio dall’autorità, si avvicina più all’opera di Kafka che ai noir contemporanei, dai quali si distacca quasi per intero. Alla creazione delle atmosfere contribuisce non poco la nebulosa fotografia di Benjamin H. Kline. Imperdibile.

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Animali notturni

(Nocturnal Animals)

Regia di Tom Ford

con Amy Adams (Susan Morrow), Jake Gyllenhaal (Edward Sheffield/Tony Hastings), Michael Shannon (detective Bobby Andes), Aaron Taylor-Johnson (Ray Marcus), Isla Fisher (Laura Hastings), Ellie Bamber (India Hastings), Armie Hammer (Hutton Morrow), Robert Aramayo (Turk), Karl Glusman (Lou), Laura Linney (Anne Sutton), Andrea Riseborough (Alessia Holt), Michael Sheen (Carlos Holt), India Menuez (Samantha Morrow), Jena Malone (Sage Ross), Kristin Bauer van Straten (Samantha van Helsing).

PAESE: USA 2016
GENERE: Drammatico
DURATA: 116′

L’affermata gallerista Susan riceve dall’ex marito Edward la bozza di un romanzo a lei dedicato, intitolato Animali notturni. Vi si narra la vicenda della famiglia Hastings, marito, moglie e figlia adolescente, che durante un viaggio notturno in auto attraverso il Texas è avvicinata da tre balordi dalle pessime intenzioni. Rapita dalla lettura, Susan ricorda i momenti della separazione da Edward e riflette sulla propria esistenza e sulle decisioni prese…

Secondo film dello stilista Ford dopo il pregevole A Single Man (2009), che questa volta adatta il complesso romanzo Tony & Susan (1993) di Austin Wright. Un crudo, complesso post-noir che diventa man mano una feroce critica anti-borghese, ambizioso nella struttura che alterna in maniera sapiente ben tre linee narrative (presente, passato e storia raccontata nel romanzo di Edward) e nelle riflessioni sul potere (anche negativo) della scrittura. I flashback sulla lovestory tra Susan e Edward sono banalotti, i simbolismi fin troppo espliciti e non manca qualche incongruenza negli sviluppi dell’intreccio, eppure Ford si conferma regista elegante e abile nel percorrere strade non convenzionali e nel creare una tensione palpabile. Basti pensare al racconto dell’odissea della famiglia Hastings, che è l’unico materiale mostrato che non appartiene alla sfera della realtà eppure assume i contorni di un incubo difficile da scordare. Bravissima la Adams, ma non gli sono da meno Gyllenhaal in due ruoli antitetici e Shannon nei panni di uno sbirro sui generis (candidato all’Oscar). Notevoli sia la colonna sonora di Abel Korzienowski che la fotografia di Seamus McGravey.

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A Single Man

(A Single Man)

Regia di Tom Ford

con Colin Firth (George Falconer), Julianne Moore (Charlotte), Nicholas Hoult (Kenny Potter), Matthew Goode (Jim), Jon Kortajarena (Carlos), Paulette Lamori (Ava), Ryan Simpkins (Jennifer Strunk), Ginnifer Goodwin (Susan Strunk), Teddy Sears (Mr. Strunk).

PAESE: USA 2009
GENERE: Drammatico
DURATA: 100′

California, 1962. Resoconto dell’ultimo giorno di vita del professore inglese omosessuale George Falconer, che ha perso la voglia di vivere dopo la morte dell’amato Jim, col quale viveva da 16 anni. Dopo aver tenuto un’ultima lezione all’università, inizia la meticolosa preparazione del proprio suicidio. Ma la sera stessa, dopo aver visto un ultima volta l’amica Charley, incontra uno dei suoi studenti e sembra cambiare idea…

Tratta dal romanzo omonimo (1964) di Christopher Isherwood, considerato una pietra miliare del movimento di liberazione gay, è l’opera prima dello stilista Ford, già direttore creativo di Gucci e Yves Saint-Laurent e dal 2005 in proprio. Film sulla solitudine, conseguenza della paura del diverso che influenza tanto gli equilibri mondiali (la storia è ambientata durante la crisi dei missili di Cuba) quanto le vite degli individui, ma anche sulla fine (forzata) di un amore e sull’unico antidoto che possa esistere, ovvero la magia e la grazia di un nuovo incontro. Anche se il destino, beffardo, è in agguato per rimescolare immediatamente – di nuovo – le carte. Con una regia elegante almeno quanto il protagonista (un memorabile Firth, doppiato in maniera impeccabile da Massimo Lopez e nominato all’Oscar), Ford avanza per associazioni tra passato e presente e racconta cosa significhi assaporare per l’ultima volta le cose del mondo, soprattutto a livello sensoriale (profumi, colori, immagini). Ne è uscito un film fin troppo formalista ma sincero, lineare eppure profondo, capace di veicolare molti significati senza diventare didattico. Menzione speciale per l’ottima Moore e per la colonna sonora incalzante e drammatica (ma non ansiogena) di Abel Korzienowski e Shigeru Umebayashi. Ma si fa notare anche la fotografia cangiante di Eduard Grau. Scritto da Ford con David Scearce. Struggente.

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Breve storia della distopia cinematografica

Cliccando sul link sottostante potrete leggere le slide e trovare diversi spunti in merito al cinema distopico. Le slide, a cura di Riccardo Poma (autore e fondatore del blog nehovistecose) sono state presentate durante il ciclo di incontri E adesso parliamo di cinema presso Informagiovani Cossato (BI), durante l’anno 2023/2024.

Breve storia della distopia cinematografica

Tutti i diritti riservati

Di seguito, in ordine cronologico, la lista di film distopici citati nelle slide e le loro recensioni. Attenzione, non si tratta per forza di cose dei film più belli facenti parte del genere, bensì dei più rappresentativi per comprenderne le caratteristiche.

1927 Metropolis

1965 Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville

1965 La decima vittima

1966 Fahrenheit 451

1971 Arancia Meccanica

1971 L’uomo che fuggì dal futuro

1973 2022 – I sopravvissuti

1975 Anno 2000 – La corsa della morte

1975 Rollerball

1979 I viaggiatori della sera

1979 Interceptor

1981 1997: Fuga da New York

1982 Blade Runner

1984 Brazil

1987 L’implacabile

1987 Robocop

1994 Fuga da Absolom

1995 Strange Days

1995 L’esercito delle 12 scimmie

1997 Nirvana

1997 Gattaca – La porta dell’universo

1998 The Truman Show

1998 Dark City

1999 Matrix

2005 V per Vendetta

2006 I figli degli uomini

2008 Doomsday

2012 Hunger Games

2013 La notte del giudizio

2013 The Zero Theorem

2013 Elysium

2013 Snowpiercer

2015 The Lobster

2018 Ready Player One

2020 Songbird

NOTA: i seguiti dei film indicati, ove presenti, non sono stati inseriti in questa lista. Potete comunque leggerne le recensioni su nehovistecose. 

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Zamora

Regia di Neri Marcorè

con Alberto Paradossi (Walter Vismara), Neri Marcorè (Giorgio Cavazzoni), Marta Gastini (Ada), Anna Ferraioli Ravel (Elvira Vismara), Walter Leonardi (Gusperti), Giovanni Esposito (Bepi), Giovanni Storti (cavalier Tosetto), Pia Engleberth (Dolores), Antonio Catania (commendator Galbiati), Giacomo Poretti (cavalier De Carli), Giuseppe Antignati (Alvise Vismara), Pia Lanciotti (Anna Vismara).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia
DURATA: 100′

Anni sessanta. Quando la piccola ditta per cui lavora chiude, l’impacciato ragioniere Walter Vismara si trasferisce da Vigevano a Milano per lavorare alla grande azienda di Tosetto. Non sa che il titolare, maniaco del fòlber, lo vuole in squadra per la consueta partitella annuale scapoli contro ammogliati. Ma Walter di calcio non sa praticamente nulla, e così gli toccherà chiedere aiuto a un ex portiere che militò in serie A ed ora è caduto in disgrazia…

Dal romanzo omonimo di Roberto Perrone (1957-2023), adattato dallo stesso Marcorè, esordiente alla regia, con Paola Mammini, Alessandro Rossi e Maurizio Careddu, una godibile commediola all’italiana che vale soprattutto per l’ottima ricostruzione d’epoca, una Milano nottambula e fumosa in realtà scovata e ricreata a Torino (ottima fotografia di Duccio Cimatti), e per l’innegabile simpatia degli attori, alle prese con una storiella come tante che però regala ben più d’una risata. Si tratta, in fondo, di uno spassionato e nostalgico omaggio al calcio d’una volta, quando ancora non giravano i milioni e i campioni erano gente comune. L’esordiente Paradossi, pur avendo il fisico, è forse ancora un pò rigido, ma in fondo è una rigidità adatta al suo ruolo, ed è circondato da attori che divertono e si divertono: Giovanni e Giacomo (prima volta senza Aldo), le ottime Gastini e Ferraioli Ravel, Ale e Franz, lo stesso Marcorè nei panni del portiere caduto in disgrazia, il sempreverde Esposito, i membri del gruppo Il terzo segreto di Satira. E camei di Davide Ferrario (il portiere degli ammogliati) e Marino Bartoletti (il custode dello stadio). Interessante il lavoro di Marcorè sui personaggi femminili: le quattro donne più vicine a Walter (Ada, Elvira, Dolores e la signora Vismara) sono caratterizzate con grande attenzione, senza mai farle scivolare nella macchietta (cosa che invece accade ai maschietti). Musiche di Pacifico. Il titolo del film deriva dal nome di Ricardo Zamora Martínez, grande portiere spagnolo degli anni trenta. Dedicato alla memoria di Perrone, mancato durante le riprese.

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Ore 15:17 – Attacco al treno

(The 15:17 to Paris)

Regia di Clint Eastwood

con Spencer Stone (se stesso), Anthony Sadler (se stesso), Alek Skarlatos (se stesso), Judy Greer (Joyce Eskel), Jenna Fischer (Heidi Skarlatos), Thomas Lennon (preside), P.J. Byrne (Mr. Henry), Jaleel White (Garrett Walden), Heidi Sulzman (insegnante), Ray Corasani (Ayoub El-Khazzani).

PAESE: USA 2018
GENERE: Biografico
DURATA: 94′

21 agosto 2015. Sul treno Thalys 9364 in viaggio da Amsterdam a Parigi tre giovani americani (tra i quali due militari), amici sin dall’infanzia, sventano un attacco terroristico pianificato da un giovane marocchino che, armato fino ai denti, voleva fare una strage. Eastwood ci racconta le loro vite e gli eventi che li portarono ad essere quel giorno proprio su quel treno.

Dal romanzo autobiografico The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, and Three American Heroes, scritto dai tre protagonisti della vicenda con Jeffrey E. Stern e adattato da Dorothy Blyskal, un instant movie uscito appena tre anni dopo gli eventi, cosa che permette a Eastwood e alla produzione di ingaggiare come attori i reali protagonisti della vicenda senza che sembrino invecchiati (cosa che tornerà molto utile nel finale, in cui sequenze girate ex novo si mescolano alle riprese reali del conferimento della legion d’onore da parte del presidente Holland). Scelta molto furba che sottolinea, più che il bisogno di verità, lo spirito orgogliosamente reazionario del film, una vera e propria celebrazione dell’eroismo made in USA che, soprattutto all’inizio (che potremmo tranquillamente intitolare piccoli repubblicani crescono), assume gli inquietanti contorni di uno spot pro-Trump e pro-esercito. Un tempo critico verso qualsiasi tipo di guerra e di intervento armato, anche e soprattutto americano (si pensi al meraviglioso dittico Flags of Our Fathers/Lettere da Iwo Jima), Eastwood cambia definitivamente registro e gira l’ideale seguito di American Sniper (2014), evitando di porsi troppe domande e accodandosi a un certo interventismo patriottico tornato di moda negli ambienti della destra statunitense.

Ma il film stecca anche a livello formale. Come succedeva nel pregevole Sullyl’evento di cronaca su cui si basa il film ebbe una durata piuttosto ridotta, e dunque Eastwood è costretto a concentrarsi su altro, in questo caso l’infanzia dei tre protagonisti, i loro studi e, infine, la vacanza in terra europea che li portò ad essere su quel treno proprio quel giorno; il problema è che questo altro è di una banalità sconcertante, coi bulletti a scuola che deridono (giustamente?) il trio di giovani fanatici delle armi, il desiderio di Spencer di farcela nonostante tutti gli dicano di mollare (è l’american dream, bellezza), il resoconto della vacanzina europea del trio (con cartoline da Roma, Venezia, Berlino e infine Amsterdam) con tanto di richiamo al destino con frasi come “sento che devo essere su quel treno perché succederà qualcosa che darà un senso alla mia vita” (sic): una noia mortale. Addirittura, per non far addormentare lo spettatore, Eastwood inserisce ogni tanto qualche breve flashforward dell’attentato, a ricordarci che siamo in sala per quello e che, se teniamo duro, prima o poi ce lo mostrerà. Inspiegabile la mancanza, tra i personaggi, dell’attore francese Jean-Hugues Anglade, che si trovava sul treno e rimase ferito nell’attentato. Davvero brutto, forse il punto più basso della carriera del grande Clint, che rovina il suo curriculum e quello del suo fidato direttore della fotografia Tom Stern.

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