Bersagli

(Targets)

Regia di Peter Bogdanovich

con Boris Karloff (Byron Orlok), Tim O’Kelly (Bobby Thompson), Peter Bogdanovich (Sammy Michaels), Nancy Hsueh (Jenny), Arthur Peterson (Ed Loughlin), Monte Landis (Marshall Smith), James Brown (Robert Thompson Sr.), Mary Jackson (Charlotte Thompson), Tanya Morgan (Ilene Thompson), Sandy Baron (Kip Larkin), Geraldine Baron (Mrs. Larkin).

PAESE: USA 1968
GENERE: Thriller
DURATA: 90′

Byron Orlok, anziano attore di film dell’orrore, ha deciso di ritirarsi per raggiunti limiti d’età e perché convinto che i suoi film siano divenuti, dinnanzi agli orrori reali, totalmente anacronistici. Nello stesso momento il giovane Bobby Thompson, ossessionato dalle armi, uccide moglie e madre e si dà alla fuga lasciandoci dietro un’impressionante scia di cadaveri. Finiranno per incontrarsi (e affrontarsi) in un drive-in dove si proietta un vecchio classico di Byron…

Prodotto da Roger Corman, è il memorabile esordio del 29enne Bogdanovich, basato su un soggetto suo e della moglie Polly Platt sceneggiato con Samuel Fuller. Una sorta di Viale del tramonto di serie B (ma solo per quanto riguarda il budget, di appena 130 mila dollari) nel quale cade totalmente il muro tra attore e personaggio (Karloff interpreta praticamente se stesso, e il film proiettato al drive-in è La vergine di cera di Corman) e il regista si chiede se abbia ancora senso il cinema dell’orrore di un tempo (quello ambientato negli antichi manieri, basato sul trucco e sulla maschera, insomma, quello di Karloff  dinnanzi al tragico, immotivato, orrore reale cui ci ha abituati la società di oggi. La risposta, per Bogdanovich è positiva: ha ancora senso, anzi, probabilmente ne ha ancora più di un tempo, perché più aumenta l’orrore reale più sentiamo il bisogno di fuggire nell’orrore “finto” dei film. Anche perché, come sottolinea la battuta finale di Karloff («è di questo che avevo paura?»), il male reale è spesso tremendamente sciocco e banale. “Il primo film di Bogdanovich è l’omaggio a un cinema ormai reso anacronistico dagli orrori “veri”, ma che alla fine si prende una rivincita sulla realtà. Una parabola da cinefilo, a tratti gustosa e acuta” (Mereghetti). Ritagliandosi il ruolo del giovane regista Michaels anche Bogdanovich fa se stesso (Michael vuole convincere Orlok a fare ancora un film in cui interpreti un personaggio che gli somigli davvero e non il “solito” mostro, ovvero esattamente quello che ha fatto Bogdanovich con Karloff), e basterebbe soffermarsi su una sequenza come quella della preparazione del drive-in per capire il suo amore per il cinema, tanto come regista quanto come spettatore.

Molte frecciate sulla società americana, riscontrabili soprattutto nel racconto del menage familiare di Bobby tutto cenette, serate alla TV e culto macho delle armi, e diversi passi simbolici che lasciano il segno (Bobby si mangia un hamburger e si beve serenamente una Coca prima di iniziare a sparare sugli automobilisti). Anche lo stile è tutt’altro che banale, e sequenze un tempo bollate come inutili lungaggini (come le lunghe preparazioni di Bobby prima e dopo gli omicidi) sono in realtà funzionali alla creazione della suspense. Coraggiosa anche la scelta di girare quasi tutto il film senza musica (non c’è nemmeno nei titoli di coda) per accentuarne il tono funereo e sommesso. Straordinaria prova dell’ottantenne Karloff nel più bell’omaggio che gli sia mai stato tributato: la scena in cui, ripreso con un lungo piano sequenza che si avvicina lentamente al suo volto, racconta la leggenda di Samarra (quella che ispirò anche la canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni) è difficile da dimenticare. Ottima fotografia di László Kovács, che diverrà un collaboratore abituale del regista. Un gioiellino.

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