Il sol dell’avvenire

Regia di Nanni Moretti

con Nanni Moretti (Giovanni), Margherita Buy (Paola), Silvio Orlando (Silvio/Ennio), Barbora Bobulova (Barbora/Vera), Mathieu Amalric (Pierre), Jerzy Stuhr (Jerzy), Teco Celio (psicanalista), Valentina Romani (Emma), Zsolt Anger (direttore del circo), Giuseppe Scoditti (giovane regista), Blu Yoshimi (la ragazza), Michele Eburnea (il ragazzo).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia
DURATA: 95′

Mentre gira un film ambientato in una sezione romana del PCI alle prese con l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956), il regista Giovanni deve fare i conti con una serie di accadimenti che ne turbano le serenità: la moglie Paola, produttrice di tutti i suoi film, medita la separazione; la figlia Emma inizia una relazione con un diplomatico polacco molto più vecchio di lei; il produttore francese del suo film viene arrestato dalla guardia di finanza, rischiando di mandare a monte l’intera produzione. Quando tutta sembra perduto, sembra ritrovare la gioia di vivere (e di girare) grazie alla storia di due giovani innamorati (lui e Paola?), che decidono contro tutto e tutti (anche se stessi) di amarsi e creare una famiglia. In fondo, come dice la protagonista del film nel film Vera/Bobulova, è sempre e solo una questione d’amore…

14esimo lungometraggio di Moretti, scritto con tre donne (Francesca Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella) e basato, come i precedenti Sogni d’oro (1981), Il caimano (2006) e Mia madre (2015), sulla lavorazione di un film. Rinunciando quasi totalmente a separare interprete e personaggio, Moretti riflette ancora una volta su se stesso, sui suoi film e sul suo impegno politico, e su quanto vadano, da sempre, di pari passo. Andando controcorrente rispetto all’ottimo Mia madre, nel quale abdicava ai consueti eccessi di protagonismo delegando alla regista della Buy il proprio pensiero, si pone nuovamente al centro della storia, correndo certamente incontro alle accuse, mossegli da quarant’anni, di essere il più grande narcisista del cinema italiano, ma rivelando quanto agli albori dei 70 anni sia apparso in lui il bisogno, più che legittimo, di iniziare a pensare a un film-testamento che rifletta su cosa abbiano significato questi quasi cinquant’anni di cinema (e di conseguenza di impegno politico), per lui e per il pubblico che lo ha seguito. Ancora una volta, e forse più di prima, riflette sulla sua solitudine di regista e di comunista prima ancora che di uomo e di intellettuale (la citazione “calcistica” di Caro diario non può essere casuale), dettata da una sempre più scarsa capacità di ascolto (la breve sequenza della cena a casa di Jerzy) che però attribuisce anche a se stesso ricorrendo in maniera frequente all’autoironia: quando gli viene chiesto se pensa ai gusti del pubblico quando gira un film lui risponde prontamente di no, salvo poi rettificare affermando che, quantomeno, gli piace dirlo, senza essersi mai chiesto troppo se sia vero o no.

Ogni attore interpreta la versione morettiana di se stesso, e la sintassi è sempre più libera ma mai casuale, mai gratuita. I momenti da musical si confermano parentesi necessarie per stemperare la tensione, e il gioco di rimandi meta-cinematografici (con molte, moltissime auto-citazioni) lavora col cesello per riflettere sul potere del cinema, in grado di suggerire alla politica una via diversa: come dice Giovanni la storia non si fa coi se, ma se davvero le cose fossero andate come si vede nel film nel film (Togliatti, spinto dai tesserati, condanna l’invasione sovietica e si schiera dalla parte della rivoluzione ungherese) forse anche la sinistra italiana degli anni cinquanta avrebbe ottenuto consensi diversi. Insomma, qualche volta andare CONTRO, fosse anche contro il proprio stesso partito, magari avrebbe giovato. Ma Moretti riflette anche sulla propria vecchiaia (“non posso fare un film ogni cinque anni, è uno spreco di tempo”), sulla paura dei cambiamenti (il personaggio di Orlando, a fine film, preferiva uccidersi piuttosto che ammettere un errore di valutazione) e sulle vie “nuove” prese dal cinema, nelle quali lui da sempre (sin dai tempi di Henry pioggia di sangue, citato in Caro diario) fatica a riconoscersi: impagabile la scena del colloquio coi dirigenti di Netflix, che non è soltanto un grande pezzo comico ma anche una dimostrazione della straordinaria capacità di sintesi di Moretti, e memorabile la sequenza in cui interrompe le riprese sul set di un action movie e inizia una dissertazione sulla violenza cinematografica, coinvolgendo in maniera molto alleniana anche Renzo Piano, Corrado Augias e la matematica Chiara Valerio, salvo poi andarsene sconfitto quando alla fine la scena viene girata esattamente come previsto. Pur portato con ironia surreale e attraverso una gag, un vero e proprio saggio sulla violenza al cinema che è anche la rappresentazione di una resa.

Resa che, inaspettatamente, sembrerebbe quindi più cinematografica che politica. Ma se il cinema in generale non ha (quasi) più nulla da dire, la politica può ancora sperare nel risveglio delle coscienze, magari proprio attraverso i film. Non tutti, certo, ma i film “giusti”. E infatti nel finale non sono gli attori a sfilare in parata, bensì i personaggi di questo e di molti dei passati film di Moretti, vestiti da orgogliosi comunisti degli anni sessanta. Ovvero, si può ancora camminare verso qualcosa di meglio, qualcosa di più giusto. Verso quel luogo dove ancora oggi può sorgere il sol dell’avvenir. In colonna sonora, oltre al “solito” Battiato, Tenco, Noemi e De André. Musiche: Franco Piersanti. Fotografia: Michele D’Attanasio. Divertente, commovente, intellettuale con meno snobbismi del solito. I fan di Moretti troveranno pane per i loro denti, e non è pretestuoso dire che forse era proprio questo il film che aspettavano.

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