Un bacio e una pistola

(Kiss Me Deadly)

Regia di Robert Aldrich

con Ralph Meeker (Mike Hammer), Maxine Cooper (Velda), Paul Stewart (Carl Evello), Wesley Addy (sergente Pat Murphy), Gaby Rodgers (Gabrielle), Albert Dekker (dottor G.E. Soberin), Fortunio Bonanova (Carmen Trivago), Cloris Leachman (Christina Bailey), Jack Lambert (Sugar Smallhouse), Jack Elam (Charlie Mac), Nick Dennis (Nick), Juano Hernandez (Eddie Yeager), Marian Carr (Friday), Percy Helton (Doc Kennedy).

PAESE: USA 1955
GENERE: Noir
DURATA: 106′

Quando una bionda misteriosa cui aveva dato un passaggio nel deserto viene torturata e uccisa, l’investigatore privato Mike Hammer inizia ad indagare sulla vicenda. Scoprirà un traffico di uranio orchestrato da un perfido scienziato che vuole vendere i segreti della bomba atomica a una potenza straniera…

Dal romanzo omonimo (1952, in italiano Bacio mortale) di Mickey Spillane, adattato da A.I. Bezzerides, un noir notturno, crudo e nichilista che rilegge gli stereotipi del genere svuotandoli della loro stessa essenza. E così, a differenza dei noir con Bogart (e dunque degli epigoni firmati Chandler e Hammett), il protagonista non è un investigatore dalla robusta fibra morale, giusto e fascinoso, bensì un uomo misogino, arrogante, sadico nel fare male ai nemici e sempre opportunista con gli amici (e le donne): insomma, non un personaggio duro e puro alle prese con un mondo marcio quanto un personaggio marcio costretto ad avere a che fare con un mondo ancora più marcio di lui, rispetto al quale, alla fine, sembra quasi (il quasi è comunque d’obbligo) pulito. La sceneggiatura di Bezzerides mantiene il discorso di Spillane su un’umanità mostruosa e corrotta, ma modificando il MacGuffin dell’intreccio (una valigetta piena di uranio per la bomba atomica) ne stempera lo spirito reazionario e imbastisce una riuscita parabola sulla paura nucleare e su quanto lo studio dell’atomica sia in fondo il vaso di Pandora dei suoi (ma ahimè anche dei nostri) tempi.

Con stile asciutto ma non privo di raffinate trovate visive (l’intro notturno, la scena dell’appostamento coi pop-corn, il ritrovamento della valigetta), Aldrich tiene la macchina da presa ad altezza di protagonista (addirittura, quando Hammer è sdraiato, vediamo soltanto i piedi di chi c’è con lui) e concepisce un finale apocalittico e potentissimo che ancora oggi lascia il segno: a bruciare è “solo” un cottage in riva al mare, ma l’impressione è che stia bruciando il mondo intero. Di questo anomalo, imperdibile “post-noir” furono girati due finali, uno con la morte dei protagonisti e l’altro con la loro sopravvivenza: paradossalmente, lascia più malessere il secondo. La tendenza aldrichiana al grandguignol, marchio di fabbrica dei film a venire, si scorge nel sottofinale con la ragazza in fiamme. Grande importanza (anche semantica) agli apparecchi tecnologici e meccanici, dalle automobili alla segreteria telefonica (una delle prime mai viste al cinema) che prende i messaggi di Hammer. Grande fotografia nottambula di Ernest Laszlo, funzionali musiche di Frank De Vol. Da vedere.

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