Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York

(Rosemary’s Baby)

Regia di Roman Polanski

con Mia Farrow (Rosemary Woodhouse), John Cassavetes (Guy Woodhouse), Ruth Gordon (Minnie Castevet), Sidney Blackmer (Roman Castevet), Maurice Evans (Edward “Hutch” Hutchins), Ralph Bellamy (Dottor Abraham Sapirstein), Angela Dorian (Terry Gionoffrio), Patsy Kelly (Laura-Louise McBirney), Elisha Cook Jr. (Signor Nicklas), Charles Grodin (Dottor C. C. Hill), Hope Summers (Signora Gilmore).

PAESE: USA 1968
GENERE: Horror
DURATA: 136’

La giovane Rosemary si trasferisce col marito Guy, attorucolo di pubblicità, nel palazzo residenziale Dakota. Quando resta incinta, si accorge che gli anziani vicini Castevet sono stranamente interessati al bambino che porta nel ventre…

Quarto film di Polanski, il primo a Hollywood, da lui sceneggiato a partire dal romanzo omonimo (1967) di Ira Levin: uno degli horror più riusciti e interessanti della storia del cinema. Si dimostra avanti coi tempi sia nei temi che nella messa in scena: anticipa l’era Watergate (in cui tutti sono spiati, controllati, soggiogati e diventano paranoici) e suggerisce al genere una via nuova, che lascia da parte sangue e mostri per creare un clima d’angoscia e claustrofobia. Un clima dovuto al periodo storico, in cui l’orrore cessa di essere “straordinario” ed entra nell’ordinario della vita quotidiana, in cui tutti – specialmente i più rispettabili – sono mostri assetati di sangue. Il film, che fu anche un buon successo di pubblico, si presta a diverse letture (sociologica, politica, psicanalitica, psicologica, esistenziale), ma ciò che colpisce ancora oggi è la sua impeccabile maestria tecnico- strutturale: parte come una soap opera alla Doris Day, diventa un thriller hitchcockiano e finisce come un horror pessimista che non lascia speranze. Piuttosto che puntare sugli effetti speciali – di cui, praticamente, non v’è traccia – Polanski preferisce creare un atmosfera insana di sospetto che terrorizza senza mostrare: tutto sta nell’immedesimazione dello spettatore con la protagonista, che spesso versa in situazioni opprimenti e senza via di fuga, e nell’idea di ambientare il film in un edificio scuro e misterioso (grande, a questo proposito, il lavoro fotografico di William Fraker) che diventa a sua volta protagonista, sorta di labirintico maniero che cela l’incubo dietro la rispettabilità. La narrazione resta volutamente ambigua, e la linea di confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginario cessa di esistere e lascia che le parti si fondano per creare un incubo indefinito che lascia spaesati. E non mancano comunque parentesi ironiche che tratteggiano con spirito dissacratorio l’abominio della società americana: Guy è un attore fallito che non ferma il complotto per esaudire i suoi sogni di fama e successo; Rosemary semina i suoi carcerieri gettando a terra delle banconote; i benestanti anzianotti e simpaticoni che vivono nell’edificio sono in realtà biechi satanisti che coltivano l’ascesa dell’anticristo.

La regia di Polanski – perfetta – rielabora gli stilemi hollywoodiani e offre pagine di paura assolutamente straordinarie. Una su tutte, la sequenza finale in cui Rosemary vede il suo bambino e urla terrorizzata: non c’è una soggettiva di ciò che vede (un bambino “demoniaco”?), ma il suo volto contratto in una smorfia di terrore dice più di qualunque immagine “mostruosa”. E qui scatta, doverosa, una menzione speciale per la Farrow, capace di dare al proprio personaggio quella fragilità (emotiva, ma anche corporea) che la rende una vittima tristemente indifesa. Ma non le sono da meno i comprimari, specialmente Blackmer, la Gordon (premiata giustamente con un Oscar), Bellamy e una rinata Summers presa in controparte. La voce che si sente al telefono dell’attore cieco Baumgart è di Tony Curtis, le ottime musiche sono di Krzysztof Komeda (1931 – 1969). Il condominio Dakota, che esiste davvero e fu abitazione di molti divi dello star system, divenne tristemente famoso nel 1980 perché davanti al suo ingresso Mark Chapman sparò a John Lennon. Qualche leggera inverosimiglianza (perché Rosemary si ostina a non chiamare la polizia?) non scalfisce la grinta di un film che ancora oggi risulta decisamente agghiacciante, impeccabile per come fonde realismo (dialoghi, azioni, espressioni degli attori) e sogno, angoscia e timore, riflessione filosofica e riflessione socio- politica. Ne fu girato un seguito televisivo nel 1976, dal titolo Look what’s happened to Rosemary’s Baby.

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