M – Il mostro di Düsseldorf

(M – Eine Stadt sucht einen Mörder)

Regia di Fritz Lang

con Peter Lorre (Hans Beckert, l’omicida), Otto Wernicke (commissario capo Karl Lohmann), Gustaf Gründgens (Schranker), Hertha von Walther (la prostituta), Theodor Loos (commissario Groeber), Friedrich Gnaß (il ladro), Fritz Odemar (il giocatore d’azzardo), Georg John (il mendicante cieco), Inge Landgut (Elise Beckmann), Ellen Widmann (madre Beckmann), Rosa Valetti (la padrona di casa).

PAESE: Germania 1931
GENERE: Drammatico
DURATA: 106′

Una città tedesca è terrorizzata da un ignoto maniaco che adesca e uccide bambine. Per catturarlo la polizia aumenta i controlli negli ambienti della malavita. I criminali, stanchi delle continue retate, lo cercano per conto loro. Scovatolo, lo processano e lo condannano a morte, ma la polizia, anch’essa appresa l’identità del maniaco, interviene per tempo.

Primo film sonoro di Lang, scritto con la moglie Thea von Harbou, uno dei più celebri e studiati della storia del cinema, forse il primo della storia con protagonista un serial killer psicopatico. Ancora oggi si fa notare per la grande modernità, tanto nello stile quanto nei temi. Lang concepisce un racconto corale nel quale pian piano guadagnano spazio alcuni personaggi archetipici (il commissario, il capo dei criminali, lo stesso assassino), e non rinuncia a quello stile realistico ma colmo di immagini simboliche (il palloncino della bambina appena uccisa incastrato tra i fili elettrici, i coltelli riflessi nella vetrina quando vi guarda l’assassino) che aveva reso grandi (ed estremamente riconoscibili) i suoi film muti. Eppure, a riprova di un notevole spirito di adattamento alla nuova tecnologia, è al suono che sono affidati due snodi narrativi fondamentali: l’identificazione dell’assassino, tramite l’inquietante motivetto che fischietta a più riprese, e il lunghissimo monologo finale, vero e proprio trionfo della parola nel quale rivela la sua natura di malato e provoca la pietas dello spettatore. Per il resto, colonna sonora ridotta al minimo, ma solo per accentuare l’aspetto quasi documentario (e per questo ancora più terrificante) di alcune sequenze. E se l’uso del primo piano è sicuramente mutuato da Ejzenstejn, la disinvoltura con cui la macchina da presa si sposta all’interno dei diversi ambienti, spesso con movimenti similari a rimarcare il parallelismo tra i luoghi della giustizia ufficiale e quelli della giustizia privata, appartiene soltanto a Lang.

Così come l’uso simbolico e narrativo del rapporto tra campo e fuori campo (si pensi ai primi 10′, studiati nelle scuole di cinema di tutto il mondo), o la persistenza dell’immagine riflessa come elemento allo stesso tempo fuorviante e appagante (l’assassino vede la bambina come un oggetto sessuale quando questa gli appare incorniciata dentro una vetrina). Tra i temi cari al regista, visibili in tutto il suo cinema a venire, ci sono come di consueto il concetto di colpa (si può condannare chi uccide per impulso?), il pensiero critico verso la pena di morte (“un uomo malato non si affida al carnefice, ma al medico”, dice l’improvvisato avvocato d’ufficio del mostro), il contrasto tra giustizia ufficiale e giustizia privata, la feroce stupidità della folla che vuole ad ogni costo un colpevole. Insomma, uno sguardo molto, molto lucido sulla società, e sulle responsabilità che essa possiede verso il futuro (non a caso le vittime sono dei bambini). Monumentale prova attoriale dell’esordiente Lorre, capace di instillare in chi guarda tanto disprezzo quanta pietà. La fotografia realistica ma dal sapore espressionista è del grande Fritz Arno Wagner (Nosferatu). L’idea del processo con la giuria dei criminali (tra i quali il regista volle criminali veri) deve qualcosa a L’opera da tre soldi (1928) di Bertolt Brecht. Anche se Lang negò di essersi ispirato a eventi reali, gli omicidi del mostro ricordano quelli di due serial killer tedeschi: Fritz Haarmann, detto il macellaio di Hannover, e Peter Kürten, conosciuto come il vampiro di Düsseldorf. Se si fa caso ad un giornale che appare nel film si scopre che in realtà il film è ambientato a Berlino: il riferimento a Düsseldorf è un errore del titolo italiano, probabilmente dovuto ai fatti di cronaca di cui sopra. La M non sta per mostro, come spesso si è detto, ma per mörder, assassino. Non a caso il sottotitolo originale significa “una città cerca un assassino”. Uno dei grandi capolavori della storia del cinema. Rifatto nel 1951 da Joseph Losey.

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