Il salario della paura

(Sorcerer)

Regia di William Friedkin

con Roy Scheider (Jackie Scanlon/Dominguez), Bruno Cremer (Victor Manzon/Serrano), Francisco Rabal (Nilo), Amidou [Hamidou Benmassaoud] (Kassem/Martinez), Ramon Bieri (Charles Corlette), Karl John (Angelmann), Randy Jurgensen (Vinnie), Peter Capell (Lartigue), Friedrich von Ledebur (Carlos), Rosario Almontes (Agrippa).

PAESE: USA 1977
GENERE: Avventura
DURATA: 121’

Quattro disperati, esuli in un paesino sperduto del  sud America, accettano di guidare due camion carichi di nitroglicerina attraverso la giungla. La paga è alta, ma i rischi sono enormi.

Dal romanzo Le salaire de la peur (1950) di Georges Arnaud, già portato sullo schermo nel 1953 da Henri-Georges Clouzot (titolo italiano Vite vendute) e adattato da Walon Green, uno dei film meno conosciuti di Friedkin, che poté girarlo relativamente in libertà grazie al successo mondiale de L’esorcista (1973). Nonostante il clamoroso insuccesso di pubblico e una stroncatura quasi unanime da parte della critica, rimane uno dei film più anomali e potenti del regista americano, un cult del cinema avventuroso che diventa man mano un apologo sull’uomo che soccombe dinnanzi alla potenza indifferente della natura e a un fato beffardo. Non a caso, nei temi e nelle atmosfere Friedkin affermò di essersi ispirato a Il tesoro della Sierra Madre (1948) di Huston, un film che per molti aspetti sembra il padre ideale di questo Sorcerer (che significa stregone, dal nome di uno dei due camion). Anche perchè, come sottolinea l’inquadratura finale, non c’è possibilità di un vero riscatto, ma piuttosto la condanna ad un rigido determinismo alla Melville (e ovviamente alla Huston). Film sporco, crudo, impregnato di sangue e sudore (sembra quasi di percepire i miasmi dell’infernale villaggio di Pouvenir), pochissimo parlato perchè tutto – suspense, snodi narrativi, psicologie dei personaggi – è affidato esclusivamente al potere delle immagini. Una scommessa riuscita, anche perché alcune sequenze (su tutte, la scena dei camion sul ponte tibetano durante il nubifragio) sono pezzi di grande, grandissimo cinema.

Da segnalare anche il sottofinale virato in blu: raramente il cinema avventuroso aveva raccontato così bene gli abissi in cui può sprofondare la psiche umana. Friedkin si impone un realismo quasi assoluto, azzeccando però le immagini simboliche (Scheider che guarda commosso il manifesto con la pin-up che beve Coca-Cola, gl i innesti coi volti degli animali del villaggio). E le musiche elettroniche dei Tangerine Dream, ai tempi indicate tra i difetti del film, sono perfette per come amplificano – insieme alla straordinaria, cupa fotografia di Dick Bush e John M. Stephens – la dimensione da incubo della pellicola. Inizialmente Friedkin voleva Steve McQueen nei panni del protagonista, affiancato da Lino Ventura e Marcello Mastroianni; quando però il regista non volle accontentare la richiesta di inserire in un piccolo ruolo la moglie Ali McGraw, McQueen lasciò il progetto, di fatto portandosi dietro anche Ventura e Mastroianni che non potevano permettersi di apparire nei credits dopo Scheider (comunque un’ottima scelta). Un film da riscoprire, anche se in Italia non è mai arrivato nemmeno in DVD.

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