Squid Game

(Ojingeo Geim)

Ideato e diretto da Hwang Dong-hyuk

con Lee Jung-jae (Seong Gi-hun), Park Hae-soo (Cho Sang-woo), Jung Ho-yeon (Kang Sae-byeok), Oh Yeong-su (Oh Il-nam), Heo Sung-tae (Jang Deok-su), Anupam Tripathi (Abdul Ali), Kim Joo-ryoung (Han Mi-nyeo), Wi Ha-joon (Hwang Jun-ho), Lee Byung-hun (Front Man).

PAESE: Corea del Sud 2021
GENERE: Thriller
DURATA: 9 episodi da 32′-62′

Seong Gi-hun, quarantenne opportunista e nullafacente, accetta di partecipare a un torneo misterioso nel quale, insieme ad altre 455 persone, deve cimentarsi in diversi giochi ispirati ai giochi infantili. Chi perde viene eliminato, letteralmente: un esercito di guardie mascherate e vestite di rosso supervisiona le prove con l’ordine di uccidere a bruciapelo chiunque risulti perdente in uno dei giochi proposti. Ogni volta che muore un concorrente, il montepremi aumenta. Il gioco può finire anticipatamente soltanto se la maggioranza (il 50% + 1) dei concorrenti è d’accordo. Alcuni si coalizzano, altri giocano soltanto per se stessi e per il montepremi finale. Chi arriverà fino all’ultimo livello, ovvero al gioco del calamaro?

Scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, che scrisse la sceneggiatura nel 2008 ma non trovò finanziamenti fino all’interessamento di Netflix, dieci anni dopo, è probabilmente la serie più chiacchierata (e vista) del 2021, un successo globale che nemmeno Hwang e la stessa Netflix si aspettavano. Tutto ciò che viene narrato, eccezion fatta per l’idea dei giochi mortali ispirati ai giochi dell’infanzia (il primo è l’universale Un, due, tre…stella!), è in fin dei conti già visto o già raccontato (dalla sci-fi anni settanta/ottanta, dai primi romanzi di Stephen King, da film degli ultimi anni come Hostel, Death Race, La notte del giudizio), e la stessa cosa si può dire dei messaggi e delle riflessioni che veicola, ma è indubbio che la storia sia accattivante e coinvolgente fino alla fine. I difetti sono davanti agli occhi di tutti: sviluppi non sempre credibili, innegabile prevedibilità narrativa (chi arriverà in finale? Esatto. Chi è il vero cattivo? Proprio lui), sottotrame piuttosto ingenue (il traffico di organi); è, di fatto, l’ennesimo melodrammone sul riscatto (morale prima che sociale) di un uomo che impara qualcosa vivendo un’esperienza agghiacciante. E che, alla fine di tutto, si ritrova migliore di com’era all’inizio. Eppure, nonodtante tutto, funziona. Intriga, appassiona e scuote, anche se per riuscire nell’intento sfrutta dinamiche piuttosto elementari.

Una cosa è certa: da Parasite Train to Busan a questo Squid Game, la Corea sta urlando al mondo il proprio disagio sociale attraverso i film e le serie TV. Ottimi contributi tecnici, dalla fotografia inaspettatamente sgargiante di Lee Hyeong-Deok a una regia, dello stesso Hwang, abile a sfruttare in modo geniale l’apparato scenografico e un budget evidentemente non altissimo (soprattutto rispetto ai prodotti coevi made in USA). Furba nel pigiare il piede sull’acceleratore della violenza più estetizzante (anche se non scivola mai nello splatter), la serie ha incuriosito orde di ragazzini che si sono lanciati a vederla senza probabilmente capirla a fondo. Ma la colpa non è loro, quanto dei genitori che gliel’hanno lasciata guardare senza guidarli nella visione. Potere dei social, certo, ma anche di un modo di fruire i contenuti ormai definitivamente cambiato rispetto al passato: basta accendere una Smart Tv e, a qualunque ora del giorno, si può vedere (quasi) tutto ciò che si vuole, specie se nessuno controlla. Il grandissimo successo ha spinto i produttori a mettere subito in cantiere una seconda stagione. Da vedere, anche se forse è un fenomeno più sociologico che artistico. Mi raccomando, lingua originale se si vuole apprezzarne il crudo realismo.

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