Rapacità

(Greed)

Regia di Erich von Stroheim

con Gibson Gowland (McTeague), Zasu Pitts (Trina), Jean Hersholt (Marcus), Dale Fuller (Maria), Tempe Pigott (Ma’ McTeague).

PAESE: USA 1924
GENERE: Drammatico
DURATA: 108’

San Francisco, inizio secolo. McTeague, ex minatore, dentista senza licenza, sposa la giovane Trina. Quando la moglie si dimostra ossessivamente attaccata ai soldi di una vincita alla lotteria, Mac la uccide e fugge nel deserto col malloppo. Alle sue costole Marcus, cugino di Trina segretamente innamorato di lei. Ci lasciano le penne entrambi.

Scritto da von Stroheim adattando il romanzo McTeague di Frank Norris, Rapacità rappresenta una delle vette del cinema muto e uno dei film “maledetti” della storia del cinema. “Ho diretto un solo film intero nella mia vita e me lo hanno mutilato e smembrato… a quei poveri resti è stato dato il nome di Greed…” (von Stroheim). In realtà il regista austriaco trapiantato a Hollywood girò una decina di pellicole da regista, ma Greed resta il suo film più eccessivo e controverso, vera e propria summa della sua poetica. È il capolavoro mutilato di un megalomane compulsivo ossessionato dalla perfezione, frutto di uno sforzo produttivo immenso – nove mesi di lavoro, 450 mila dollari di budget, riprese effettuate interamente in esterni e nei luoghi descritti dal romanzo (Death Valley compresa) – paragonabile, in tempi moderni, soltanto a quello di Apocalypse Now (1979). Ma è anche il testamento filmico di un piccolo immigrato europeo che fece della perfezione e del rigore morale due elementi imprescindibili per la sua opera, un melodramma universale talmente avanti coi tempi che praticamente nessuno lo andò a vedere al cinema. Il destino di questo inarrivabile, grande film muto è uno dei più controversi della storia di Hollywood: il produttore Irving Thalberg costrinse Stroheim a ridurre la durata da sette a quattro ore; poi, ancora insoddisfatto del risultato, affidò la pellicola al regista Rex Ingram e al montatore Grant Whytock (entrambi ammiratori di Stroheim) che la portarono a tre ore di durata; infine, nonostante le vive proteste del regista, arruolò una serie di montatori professionisti che lo portarono ai 108’ della versione giunta fino a noi.

Cosa resta dunque del Greed originale? Difficile stabilirlo: ciò che vediamo oggi è soltanto una specie di “bignamino” ripudiato dallo stesso regista, un film talmente lontano dalle intenzioni del suo autore da risultare difficilmente giudicabile. Ma che conserva ancora oggi tutta la sua possente carica espressiva. Stroheim curò ogni effetto scenografico e ripresa con una precisione maniacale, e ancora oggi il film affascina per lo straordinario realismo che – e qui sta il genio – non stona con gli infiniti e talvolta grotteschi simbolismi presenti in ogni singola inquadratura. Il più noto è quello finale in cui le monete d’oro, che ormai appartengono soltanto al deserto, si sporcano del sangue di McTeague e di Marcus, ma sono molteplici le sequenze in cui ci si deve alzare in piedi per applaudire le suggestioni inventate dal regista, come ad esempio il corteo funebre che passa vicino a casa McTeague il giorno del matrimonio o gli inserti delle scheletriche (e quindi mortifere) mani che accarezzano il denaro. La posizione degli attori in scena è sempre atta ad evidenziare visivamente i rapporti tra i personaggi (grande il lavoro che il regista compie sulla profondità di campo), i loro gesti celano continuamente le pecche del loro animo.

Stroheim porta all’eccesso l’idea di Griffith secondo cui il primo piano è lo specchio dell’anima: i volti degli attori, animaleschi e spesso inquadrati a distanza ravvicinata, sottolineano una decadenza umana che dal particolare (l’ingordigia di Trina, la volgarità di Mac) arriva all’universale. Simili ad orribili maschere prive di qualsivoglia calore umano, i volti di Stroheim cessano di appartenere alla storia e si tuffano NELLA Storia: diventano simboli, spettri, simulacri su celluloide di una società solo apparentemente civile che, viziata dall’avarizia, dal bisogno di possedere, dalla bulimica sete di arricchirsi, ma anche dalla fatalità del caso, riporta gli uomini alla propria selvaggia e bestiale natura animale.

“Nessuno sullo schermo ha mai espresso l’avarizia come Zasu Pitts” (Morandini). Optando per un naturalismo sfrenato che ricerca con accanimento la verità in ogni dettaglio, Stroheim girò un film verista in cui la fatalità è il tema latente del racconto. Sia essa ereditaria, sociale, o semplicemente dettata dal caso. Tragedia e ironia (e un pizzico di morboso erotismo) si mescolano in un racconto cinematografico superbo che non perde un colpo, nonostante risulti evidentemente spolpato dai moltissimi tagli. Alla 56esima mostra del cinema di Venezia (1999 ) fu presentata una versione del film della durata di 4 ore e 3 minuti, in cui alcuni esperti ricostruirono molte delle sequenze andate perdute con 589 foto di scena e circa 600 didascalie, appunti personali del regista e citazioni del romanzo. L’operazione, da molti ritenuta discutibile (in quanto priva il film del suo dinamismo e frantuma la narrazione), ha comunque il merito di avvicinarci al Greed di Stroheim.

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