Assassino senza colpa?

(Rampage)

Regia di William Friedkin

con Michael Biehn (Anthony Fraser), Alex McArthur (Charlie Reece), Nicholas Campbell (Albert Morse), Deborah Van Valkenburg (Kate Fraser), John Harkins (Dottor Keddie), Art LaFleur (Mel Sanderson), Billy Green Bush (giudice McKinsey), Royce D. Applegate (Gene Tippetts), Grace Zabriskie (Naomi Reece), Carlos Palomino (Nestode).

PAESE: USA 1987
GENERE: Drammatico
DURATA: 87′ (92′)

Procuratore cattolico e liberal, da sempre contrario alla pena capitale, cambia idea quando conosce un pluriomicida sadico. Riuscirà a convincere la giuria a dichiararlo colpevole senza invocare l’infermità mentale?

Ispirato a un romanzo omonimo di William P. Wood, adattato dal regista da sempre sensibile al tema (il suo primo film fu The People vs. Paul Crump, del 1962, un documentario su un detenuto nero condannato alla sedia elettrica), uno dei polizieschi più potenti degli anni ottanta, nel quale il regista si interroga ancora una volta sul male e su come porsi rispetto ad esso, tanto a livello umano quanto a livello legislativo: si tratta di qualcosa di metafisico o è sempre comunque indotto in primis a livello sociale? Come si fa a stabilire il concetto di colpa? Come si distingue, dinnanzi alla legge, un individuo lucidamente malvagio da uno clinicamente malato? Con un rigore registico e un distacco raro nel cinema thriller di quegli anni, Friedkin gira un film realistico ma inframezzato da parentesi allucinate (il ritrovamento della cantina degli orrori di Reece, gli innesti subliminali col killer ebbro di sangue paragonato a una bestia feroce, la cattura in chiesa dopo la fuga), in cui a una prima parte piuttosto disturbante, nella quale sono presentati gli eventi delittuosi senza filtri, con stile quasi documentario, se ne contrappone una seconda, in tribunale, molto parlata eppure fondamentale per far uscire la sua natura di film d’impegno civile che sprona al dibattito (azzeccato il paragone tra le malefatte di Reece e quelle dei nazisti). Memorabile la trovata in cui il procuratore spiega ai giurati (e a noi spettatori) quanto possano essere eterni tre minuti, gli stessi che ha impiegato il killer per uccidere la sua prima vittima, e molto interessante il racconto dell’elaborazione del lutto costruito intorno al personaggio del signor Tippets, cui il killer ha ucciso moglie e primogenito.

A causa del fallimento della De Laurentiis, nel 1987 il film fu mal distribuito e uscì in pochissime sale, ma grazie all’interesse della Miramax tornò nei cinema a partire dal 1992 con una versione differente rivista dal regista, che aggiunse un’introduzione dal sapore politico (con Reece che compra un’arma con estrema facilità), tagliò alcune scene tra il procuratore e la moglie e modificò il finale: invece che morire suicida in carcere (come accadde a Richard Chase, il serial killer soprannominato il vampiro di Sacramento che ispirò il film), Reece è dichiarato infermo di mente e viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove scrive lettere di perdono ai famigliari delle vittime sperando di incontrarli. Lo stesso Friedkin affermò che il finale della nuova versione era molto più di parte (ovvio che la redenzione di Reece è tutt’altro che veritiera, e dunque sarebbe stato meglio mandarlo sulla sedia elettrica), eppure, se letto con ironia, è ben più cinico e drammaturgicamente coerente di quello originale, che mandava lo spettatore a dormire un pelo più tranquillo. Anche perchè Reece in questo guarda in macchina, guarda direttamente noi. Ottima prova di McArthur, capace di tratteggiare un assassino dai modi suadenti e gentili eppure sadico e spietato che mette ancora più in crisi il punto di vista di chi guarda. Fotografia di Robert Yeoman, musiche (assai inquietanti) di Ennio Morricone. Un film semi-dimenticato, praticamente introvabile (non ne esiste una versione home video italiana), che andrebbe sicuramente riscoperto. Trasmesso in TV col titolo Ritratto di un serial killer. 

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