Gangster Story

(Bonnie and Clyde)

Regia di Arthur Penn

con Warren Beatty (Clyde Barrow), Faye Dunaway (Bonnie Parker), Michael J. Pollard (Clarence W. Moss), Gene Hackman (Buck Barrow), Estelle Parsons (Blanche), Gene Wilder (Eugene Grizzard), Denver Pyle (Frank Hamer), Evans Evans (Velma Davis), Dub Taylor (Ivan Moss).

PAESE: USA 1967
GENERE: Drammatico
DURATA: 111′

Texas, 1930. Dopo essersi incontrati per caso ed essersi innamorati, la cameriera Bonnie Parker e il piccolo criminale Clyde Barrow attraversano il Sud degli States commettendo una serie di rapine e omicidi. La povera gente li vede come dei beniamini, la polizia li cerca senza tregua. Le loro sanguinarie scorribande avranno termine in Louisiana, dove il 23 maggio 1934 periranno in un’imboscata.

Scritto da David Newman e Robert Benton, uno dei film capitali della storia del cinema, quello che diede il via a quel profondo rinnovamento artistico che prese il nome di New Hollywood: un cinema fatto da giovani registi che provenivano dalle università (quelle stesse università da cui partirono le istanze del sessantotto) e volevano fortemente essere autori, ovvero godere della totale libertà creativa di certe produzioni europee coeve (la novelle vague era il modello da seguire). Le ragioni di questa ricerca erano legate all’impellente desiderio di raccontare in maniera esplicita temi “caldi” e profondamente attuali (sesso, violenza, droga) che fino a quel momento il sistema hollywoodiano considerava tabù. In linea coi tempi (siamo ad un anno dal sessantotto) e con il suo cinema, Penn fa di Bonnie e Clyde due adolescenti irrequieti e disadattati, ribelli perchè incapaci di accettare un destino già scritto dai loro vecchi eppure mai davvero consapevoli del valore, del significato della loro ribellione: “per loro resta un gioco. Tragico, ma pur sempre un gioco” (Morandini). Con uno stile potentissimo e innovativo, che apre alle frantumazioni e alle riletture della novelle vague, il regista sgretola un cinquantennio di convenzioni cinematografiche e riflette sulla morte del sogno americano, sporcato e reso posticcio dal potere, soprattutto economico (Bonnie e Clyde diventano beniamini della popolazione povera perchè rapinano principalmente le banche, colpevoli della grande depressione). Nessun film americano, prima di Gangster Story, aveva inscenato in maniera così esplicita la violenza. Una violenza asciutta e iperrealista ma mostrata in tutta la sua inutile ferocia, chiaro riferimento a quella che l’americano medio vedeva ogni sera alla TV, cenando, mentre seguiva i bollettini sulla guerra in Vietnam.

Così come nessun film americano aveva mai raccontato così liberamente il sesso, sia nelle sue componenti positive, associate alla libertà e alla passione (le prime inquadrature del film mostrano il sinuoso corpo nudo della Dunaway, le sue labbra, i suoi occhi, vera e propria introduzione alla “sensualità della ribellione”), che in quelle negative e ancora considerate tabù (memorabile il modo in cui si fa riferimento, senza mai esplicitarla, all’impotenza di Clyde). Interessante anche il discorso sui media: Bonnie e Clyde leggono continuamente i giornali per vedere se appaiono i loro nomi, come se cercassero spasmodicamente qualcuno che li racconti, e sanno bene che è attraverso la manipolazione dell’informazione che si spostano gli equilibri tra giusto e sbagliato, vero e finto, vita e morte. Straordinarie le scene delle sparatorie, struggente il passo onirico con la madre di Bonnie e indimenticabile il finale, nel quale dopo una carneficina ripresa in maniera mai vista (una “mitragliata” di più di ottanta inquadrature) si passa ad un’ultima, asciutta, silenziosa inquadratura priva di qualsiasi aria di trionfo o catarsi. Addirittura manca totalmente di commento musicale, come del resto accadeva all’inizio: i titoli di testa appaiono scanditi soltanto da vecchie foto d’epoca, a rimarcare il fatto che la storia, pur con qualche libertà, si ispiri alla cronaca, alla realtà dei fatti. Primo film di Gene Wilder, in una delle stranianti scene da commedia che, inserite in alcuni punti strategici, sembrano voler spezzare la tensione e l’atmosfera funerea del racconto. Ottime prove di Beatty, anche produttore, e della Dunaway. Scenografie di Dean Tavoularis, musiche di Charles Strouse, montaggio (straordinario) di Dede Allen. Dieci nomination agli Oscar e due statuette, attrice non protagonista (Parsons) e fotografia (Burnett Guffey). Imperdibile, un caposaldo della storia del cinema.

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