Profondo Rosso

Regia di Dario Argento

con David Hemmings (Marc Daly), Daria Nicolodi (Gianna Brezzi), Gabriele Lavia (Carlo), Eros Pagni (Commissario Calcabrini), Macha Méril (Helga Ulmann), Clara Calamai (la madre di Carlo), Glauco Mauri (Professor Giordani), Giuliana Calandra (Amanda Righetti), Furio Meniconi (Rodi, il custode), Nicoletta Elmi (Olga, figlia di Rodi), Piero Mazzinghi (Bardi), Fulvio Mingozzi (Agente Mingozzi), Liana Del Balzo (Elvira, cameriera di amante), Geraldine Hooper (Ricci, amante di Carlo).

PAESE: Italia 1975
GENERE: Thriller
DURATA: 126′

Pianista inglese in Italia è testimone oculare di un delitto che avviene nel suo palazzo. L’assassino ne viene a conoscenza e tenta in ogni modo di eliminarlo. Altri tre morti ammazzati prima di arrivare all’assassino, nonostante la soluzione fosse sotto gli occhi di tutti sin dall’inizio…

Quarto film di Argento, dopo la trilogia degli animali e la parentesi storica de Le cinque giornate. Divenuto cult assoluto appena uscito, ha segnato l’immaginario del cinema horror italiano e ha dato il via ad una serie infinita di imitazioni, filoni, plagi. È basato, come L’uccello dalle piume di cristallo, sullo stratagemma del particolare che il protagonista non riesce a mettere a fuoco: come lui, anche lo spettatore ha visto, ma (merito un eccellente montaggio) non riesce a ricordare, il che aumenta coinvolgimento e suspense. Caso raro di film in cui la soluzione dell’inghippo è mostrata subito, ma nemmeno i più lesti se ne accorgono: Argento gioca con lo spettatore, e lo fa con abilità insindacabile. Il film è una vetta del suo cinema fatto di soggettive, montaggio sincopato (che alterna immagini veloci, vicine al cinema sperimentale, a lunghi piani sequenza), effetti sonori martellanti. Un bombardamento di immagini senza precedenti (almeno in Italia) che diventa quasi subliminale nel suo iperbolico dinamismo. Ma è anche una vetta del suo ricercato formalismo, del suo estro visionario: esaltata dal barocchismo scenografico e dalla capacità di dare un aspetto freddamente ieratico a strade ed edifici, questa città senza nome (Torino, in realtà) pare uscita direttamente da un quadro di Edward Hopper (celebre la riproposizione del suo dipinto Nighthawks) o di De Chirico, onirica e metafisica, nella quale anche le persone, come gli edifici, sembrano immobili e prive di vita come dei manichini.

Difetti: qualche tempo morto e certe inflessioni comiche (coerenti comunque al cinema di Argento) lo fanno apparire un po’ datato, mentre le inverosimiglianze assumono toni esagerati. Ma l’ingranaggio del terrore, ovvero l’obbiettivo primario del regista, appare tutt’ora ineguagliato nella sua perfezione stilistica e formale: bisogna solo constatare che Argento da il meglio quando vuole scioccare, e non quando invece vuole raccontare. Poco male, perché è quello che gli interessa. Non mancano nemmeno un certo gusto per la macchietta e un innegabile pressapochismo attoriale (la Nicolodi è imbarazzante sia per come recita che per come si doppia), ma il rosso del titolo domina ovunque – grande, a questo proposito la fotografia di Luigi Kuveiller – e nonostante tutto riesce nell’impresa di traghettare lo spettatore in un incubo squisitamente terrificante. Scritto con Bernardino Zapponi, è per Argento il ponte di collegamento tra la sua prima fase “hitchcockiana” e la seconda, decisamente più incline all’horror, al gore e al fantastico. Il tema musicale di Giorgio Gaslini, eseguito dai Goblin, è entrato da subito nell’olimpo delle colonne sonore più note della storia del cinema.

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Una risposta a Profondo Rosso

  1. croce e delizia scrive:

    I siparietti comici (in parte eredità della precedente commedia di argento con celentano), sono funzionali a dosare la suspence e ad evitare “l’effetto porno”: eccitazione a mille che finisce presto per smosciare. sono comunque assenti totalmente nella versione per il mercato americano, così come la connotazione macchiettistica di alcuni personaggi (ad esempio il polizziotto).

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