Smoke

(Smoke)

Regia di Wayne Wang [e Paul Auster]

con William Hurt (Paul Benjamin), Harvey Keitel (Auggie Wren), Stockhard Channing (Ruby McNutt), Harold Perrineau Jr. (Rashid Cole), Forest Whitaker (Cyrus Cole), Victor Argo (Vinnie), Erica Gimpel (Doreen Cole), Clarice Taylor (Nonna Ethel), Ashley Judd (Felicity), Giancarlo Esposito (Tommy), Mary B. Ward (April), Michelle Hurst (zia Em), Jared Harris (Jimmy Rose), José Zúñiga (Jerry), Malik Yoba (il rettile), Mel Gorham (Violet).

PAESE: USA, Germania, Giappone 1995
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 112′

Brooklyn (New York), 1990. Con epicentro la tabaccheria gestita da Auggie, s’intersecano diverse vicende umane, tra cui quella dello scrittore vedovo Paul Benjamin, che si ritrova ad ospitare un giovane ragazzo di colore in cerca del padre mai conosciuto, e quella dello stesso Auggie che scopre da una ex fiamma di avere una figlia diciottenne, incinta e dipendente dal crack.

I titoli di testa recitano «un film di Wayne Wang e Paul Auster», entrambi registi (ma solo il primo accreditato), entrambi sceneggiatori partendo da un racconto breve dello stesso Auster, intitolato Il racconto di Natale di Auggie Wren e pubblicato sul New York Times nel 1990. Proprio come Auggie, che fotografa ogni mattina i passanti davanti alla sua tabaccheria, Wang e Auster si divertono a fotografare un umanità eterogenea, perduta eppure viva, in un’America costellata di padri assenti (Cyrus), inconsapevoli (Auggie), mancati (Paul), ma forse ancora in tempo per diventare padri putativi di qualcuno che ne ha bisogno. Il risultato è un godibilissimo ritratto/omaggio agli abitanti della città di New York, raccontati con simpatia e tenerezza, senza il bisogno di una vera e propria trama ma con dialoghi memorabili, in bilico tra lo Spike Lee di Fa la cosa giusta e il cinema di Jim Jarmusch. Nessuno, alla fine, ottiene quello che vuole, ma in fondo va bene così: l’importante è parlare, raccontare, ridere. Come del resto sottolinea la straordinaria sequenza finale in cui Auggie espone a Paul la propria storia di Natale, vero e proprio inno alle storie e alla necessità di continuare a raccontarle. Meglio se ad un amico disposto ad ascoltare. A ricordarci il proprio ruolo di osservatore presente ma non giudicante, Wang privilegia lunghi piani sequenza e inquadrature statiche, quasi come se la sua macchina da presa fossero gli occhi di uno dei personaggi che guarda le scene nel loro divenire, senza interrompere. Grandi prove di tutti gli attori, ma Keitel è inarrivabile. Whitaker e Perrineau hanno solo due anni di differenza, ma interpretano padre e figlio. Ottimo commento musicale di Rachel Portman e due grandi pezzi di Tom Waits, Downtown Train Innocent When You Dream, quest’ultima nei meravigliosi titoli di coda in cui, in bianco e nero, vediamo la trasposizione in immagini della storia di Natale di Auggie. Fotografia di Adam Holender. Un gioiello. Nei sei giorni avanzati dal programma delle riprese, Wang e Auster girarono una sorta di seguito/spin-off che uscì lo stesso anno col titolo Blue in the Face. Un David di Donatello a Keitel per il miglior attore straniero, nell’ultimo anno in cui fu assegnato.

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Insonnia d’amore

(Sleepless in Seattle)

Regia di Nora Ephron

con Tom Hanks (Samuel Baldwin), Meg Ryan (Annie Reed), Bill Pullman (Walter), Ross Malinger (Jonah Baldwin), Rosie O’Donnell (Becky), Gaby Hoffmann (Jessica), Victor Garber (Greg), Rita Wilson (Suzy), Carey Lowell (Maggie Abbott Baldwin), Dana Ivey (Claire Bennett), Rob Reiner (Jay).

PAESE: USA 1993
GENERE: Commedia sentimentale
DURATA: 100’

Il piccolo Jonah, otto anni, fa un appello in radio affinché il padre Sam, giovane vedovo, trovi una donna adatta a lui. Tra le molte che si innamorano della sua storia, la giornalista Annie che sta per sposare il mite Walter ma sogna un amore da film romantico.

Secondo film della Ephron, già sceneggiatrice di Harry ti presento Sally, che scrive (con David S. Ward) e dirige questa commediola sentimentale che ha tutti gli ingredienti per piacere al grande pubblico: due attori carini e simpatici, un bambino sveglio che ha già capito tutto dalla vita, una colonna sonora calda e retrò, dialoghi frizzantini e un’ambientazione poetica che trasforma le città americane in poetiche “succursali del paradiso” (Mereghetti). Tutto è già visto, tutto è scontato sin dall’inizio, ma la Ephron è brava ad evitare scivoloni troppo mielosi e a riflettere su quanto l’amore che tutti sogniamo sia in realtà un amore mediato dal cinema (nel film si cita e si guarda spesso Un amore splendido, film del 1957 con Cary Grant e Deborah Kerr che finisce anch’esso sull’Empire State Building). Preziosa fotografia notturna di Sven Nykvist. La Ryan e Hanks torneranno a farsi dirigere dalla regista nel successivo C’è post@ per te.

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L’ultima notte di Amore

Regia di Andrea Di Stefano

con Pierfrancesco Favino (Franco Amore), Linda Caridi (Viviana Amore), Antonio Gerardi (Cosimo Forcella), Francesco Di Leva (Dino Ruggeri), Emiliano Brioschi (Fulvio), Matilde Vigna (Nureyev), Camilla Semino Favro (carabiniere Daria Criscito), Martin Francisco Montero Baez (Ernesto), Carlo Gallo (Tito Russo), Mao Wen (Bao Zhang), Fifi Wang (Fei Fei), Shi Yang Shi (Chun Ba).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Poliziesco
DURATA: 125′

Milano, giorni nostri. Il poliziotto Franco Amore si prepara all’ultima nottata di lavoro prima della pensione. Mentre sta festeggiando con famiglia e amici, una chiamata lo avvisa che il suo partner e amico Dino è stato trovato cadavere insieme a due cinesi e due carabinieri. Che cosa ha portato a quell’evento? E, soprattutto, quanto è coinvolto lo stesso Franco?

Terzo film dell’ex attore Di Stefano, il primo girato in Italia dopo Escobar (2014) e The Informer (2019). Uno riuscito, robusto film di genere come non se ne fanno più (almeno da noi), scurissimo, notturno, particolarmente avvincente. Merito (anche) della sceneggiatura (dello stesso Di Stefano), costruita in maniera decisamente originale: dopo aver visto i primi dieci minuti, dei quali capiamo per forza di cose poco o niente, la narrazione torna indietro di dieci giorni (il PRIMA) nei quali scopriamo chi è Franco Amore e in che misura è coinvolto negli eventi visti nel prologo (che assume quindi tutto un altro significato); poi, una volta tornati all’evento delittuoso suggerito all’inizio, la storia prosegue (il DOPO) concentrandosi su cosa farà Franco per uscire (forse) indenne dalla vicenda. Ma il film funziona molto bene anche a livello visivo, grazie ad una regia che sin dall’inizio, coi titoli di testa che scorrono su una lunghissima ripresa col drone sopra Milano, riesce a rendere la città e i suoi meccanismi, tanto quelli criminali quanto quelli polizieschi, vera e propria protagonista allucinata della vicenda, e a costruire una tensione palpabile che non s’allenta nemmeno nell’ultimissima e solo apparentemente catartica inquadratura. Ottima fotografia di Giudo Michelotti e straordinaria, funzionalissima (soprattutto per quanto riguarda il mantenimento della tensione) colonna sonora alla Goblin di Santi Pulvirenti. Grande prova (c’è bisogno di dirlo?) di Favino, che imita alla perfezione la parlata del meridionale che da anni vive al nord, ma la Caridi gli tiene testa egregiamente con una performance dalle molte sfaccettature. La riflessione finale sui poliziotti «costretti» a qualche scivolone perché bistrattati dalla società si presta a qualche accusa di demagogia, ma il film rimane sincero e coinvolgente, oltre che sicuramente esportabile anche a livello internazionale. Scarso successo nelle sale, immeritato.

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Ladykillers

(The Ladykillers²)

Regia di Joel Coen, Ethan Coen

con Tom Hanks (professor G.H. Dorr), Irma P. Hall (Marva Munson), Marlon Wayans (Gawain MacSam), J.K. Simmons (Garth Pancake), Tzi Ma (il generale), Ryan Hurst (Lump Hudson), Diane Delano (Mountain Girl), George Wallace (sceriffo Wyner), John McConnell (vice sceriffo), Jason Weaver (Weemack Funthes), Stephen Root (Fernand Gudge), Greg Gunberg (il regista).

PAESE: USA 2004
GENERE: Commedia
DURATA: 104′

Saucier, Mississippi. Cinque malviventi, capitanati dal sedicente professor Dorr, prendono in affitto una stanza a casa dell’anziana signora di colore Marva Munson, vedova e fervente cristiana. Il loro scopo è quello di scavare un tunnel che dalla cantina della Munson li porti al caveau del vicino casinò, ma per non destare sospetti si fingono musicisti impegnati nelle prove di un concerto. Quando l’anziana mangia la foglia, urge eliminarla. Ce la faranno?

Scritto e diretto dai fratelli Coen, per la prima volta accreditati entrambi come registi, è il remake de La signora omicidi (1955) di Alexander Mackendrick, con l’azione spostata da Londra al Mississippi (e conseguente cambio di etnia dell’anziana protagonista). Il cambio di ambientazione, con tutto ciò che comporta (la Munson, oltre che nera, è una fervente cristiana che ama andare in chiesa a cantare il gospel), è l’unico elemento azzeccato di questo fiacco, inutile remake, ad oggi il film meno interessante dei Coen. Hanks e Hall reggono il confronto con Alec Guinness e Katie Johnson, protagonisti dell’originale, ma il film manca di grandi battute e grandi trovate, e certi personaggi paiono usciti più da Scary Movie che dal cinema dei due fratelli (vedere alla voce Wayans, davvero insopportabile). E anche il tentativo di alzare il livello citando e parafrasando Edgar Allan Poe si rivela piuttosto vano. Bravo comunque Simmons, alle prese con l’unico personaggio davvero coeaniano. Cameo di Bruce Campbell, non accreditato, nei panni del supervisore della sicurezza animali. Come sempre, fotografia di Roger Deakins e musiche di Carter Burwell.

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La signora omicidi

(The Ladykillers¹)

Regia di Alexander Mackendrick

con Alec Guinness (professor Marcus), Katie Johnson (Louisa Wilberforce), Peter Sellers (signor Robinson), Danny Green (signor Lawson), Cecil Parker (maggiore Courtney), Herbert Lom (signor Harvey), Jack Warner (il sovrintendente), Philip Stainton (sergente MacDonald).

PAESE: Regno Unito 1955
GENERE: Commedia
DURATA: 91′

Per rapinare un treno carico di sterline, cinque malviventi si fingono musicisti e prendono in affitto una stanza a casa di una mite vecchina che vive a ridosso dei binari. La rapina va a segno, ma quando l’anziana scopre come stanno le cose urge eliminarla. Ce la faranno?

Scritta da William Rose, un’irriverente (per i tempi) black comedy che mescola il tipico humor inglese agli stereotipi del big caper movie (film sul colpo grosso), divenuta celebre soprattutto per la prove di Guinness, istrionico con finta mascella vampiresca, Sellers, al primo ruolo importante, e Johnson, anch’essa al primo ruolo importante nonostante fosse nel mondo del cinema da cinquant’anni e vicina agli ottanta d’età. Un po’ verboso, molto meno cattivo di quanto sembrò all’epoca e carente sul versante del ritmo, funziona soprattutto sul versante dello slapstick, anche se non manca qualche buona battuta. Gli esterni furono girati alla vera stazione di King’s Cross, nei pressi della quale fu ricostruita la casa della signora Wilberforce. La sceneggiatura di Rose vinse un BAFTA e fu candidata agli Oscar. Rifatto nel 2004 dai fratelli Coen con l’azione spostata da Londra al Mississippi. Il titolo originale, letteralmente “gli uccisori di signore”, è un termine gergale che significa “sciupafemmine”, mentre quello italiano si basa su un banale errore di traduzione. Carino, ma forse un poco sopravvalutato.

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Labyrinth – Dove tutto è possibile

(Labyrinth)

Regia di Jim Henson

con Jennifer Connelly (Sarah), David Bowie (Jareth), Toby Froud (Toby), Shelley Thompson (la matrigna), Christopher Malcolm (il padre), Shari Weiser (Gogol), Rob Mills (Bubo), David Barclay (Sir Didimus), Warwick Davis (Goblin Corps), Frank Oz (il saggio).

PAESE: USA, Gran Bretagna 1986
GENERE: Fantastico
DURATA: 101′

La quindicenne Sarah, stufa di fare da babysitter al fratellino Toby, auspica che il medesimo venga catturato dagli gnomi. Così accade. Se vorrà salvarlo, dovra attraversare il labirinto incantato che conduce al palazzo del perfido re dei Goblin…

Scritto da Terry Jones dei Monthy Python ispirandosi a modelli filmici e letterari illustri (Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz), è un film costruito attorno alla performance di Bowie, che gigioneggia senza freni e porta nel film le sue canzoni. Ispirato ai primi videogame (Sarah deve sempre affrontare una nuova sfida per passare al “livello” successivo) ma non privo di spunti “alti” (come le citazioni dei quadri di Escher), è un tipico esempio di fantasy anni ‘80 con suggestioni medievali, costumi sgargianti, labirinti incantati, fate e mostriciattoli di ogni tipo (in fin dei conti il regista Henson non è che il creatore dei mitici Muppets). Proprio questa sua appartenenza ad un periodo così preciso (è così kitsch) ne fanno un film datato e un po’ noiosetto, poco ironico e molto vacuo. Ma alla fine ci si diverte, e per più di una generazione è diventato un cult. Per gli scenari Henson si affidò al pittore inglese Brian Froud, il cui figlio neonato interpreta il piccolo Toby. Nonostante il nome di George Lucas tra i produttori fu un fiasco al botteghino, ma trovò successo nel mercato home video.

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Dracula Untold

(Dracula Untold)

Regia di Gary Shore

con Luke Evans (Vlad III di Valacchia), Sarah Gadon (Mirena), Charles Dance (Maestro Vampiro), Dominic Cooper (Maometto II), Zach McGowan (Shkelgim), Noah Huntley (Capitano Petru), William Houston (Cazan), Diarmaid Murtagh (Dumitru), Ronan Vibert (Simion il saggio), Art Parkinson (Ingeras).

PAESE: USA 2014
GENERE: Fantastico
DURATA: 92’

Pentitosi delle atrocità compiute quando lottava per i turchi, Vlad III di Valacchia, principe di Transilvania, si converte e prende in moglie una brava donna che gli dà un figlio, Ingeras. Quando il nuovo sultano turco pretende un ignobile, nuovo tributo (1000 bambini da addestrare, tra i quali anche Ingeras), Vlad si rifiuta facendo scoppiare la guerra. Per poter battere il nemico, accetta di fare un patto con una misteriosa creatura sanguinaria che vive tra le montagne. Riuscirà nel suo intento, ma a caro prezzo.

Scritto da Matt Sazama e Burk Sharpless e inizialmente intitolato Dracula Year Zero, il film è una sorta di prequel di Dracula (1897) di Bram Stoker che vorrebbe raccontare gli eventi che hanno portato il famigerato conte a divenire il più noto vampiro della storia. L’idea non era malvagia e la scelta di Evans come novello Dracula poteva essere azzeccata, ma il film si perde in inutili lungaggini e annega nelle più stanche banalità, adducendo motivazioni alquanto discutibili (addirittura si cerca di motivare in maniera sensata l’attitudine all’impalamento di Vlad) e trascinando per un’ora e mezza una storia prevedibile e senza sussulti. Girato in Irlanda del Nord con un budget di 70 milioni di dollari, il film ha una prima parte potabile e una seconda ripetitiva e fracassona, con Dracula che diventa una sorta di supereroe incazzoso che vola e dispensa pugni senza sosta. Non male comunque l’oscura fotografia di John Schwartzman. L’armatura che sfoggia Vlad nel finale si ricollega direttamente al Dracula di Coppola. Inizialmente il film avrebbe dovuto essere girato da Alex Proyas (Il corvo, Dark City) e interpretato da Sam Worthington (Avatar).

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Drive-Away Dolls

(Drive-Away Dolls)

Regia di Ethan Coen

con Geraldine Viswanathan (Marian), Margaret Qualley (Jamie), Beanie Feldstein (Sukie), Colman Domingo (il capo), Pedro Pascal (Santos), Bill Camp (Curlie), Matt Damon (senatore Channel), Joey Slotnick (Arliss), C.J. Wilson (Flint), Miley Cyrus (Tiffany Plastercaster).

PAESE: Regno Unito, USA 2024
GENERE: Commedia
DURATA: 84′

Filadelfia, 1999. Due amiche lesbiche – la disinibita e promiscua Jamie e la repressa Marian – decidono di noleggiare un’auto e partire per Tallahassee dove abita la zia della seconda. Per un errore dell’impiegato del noleggio, si ritrovano a guidare una vettura che scotta e che fa gola a un trio di criminali che lavorano per un senatore repubblicano candidato alla presidenza.

Primo film di finzione di Ethan Coen senza il fratello Joel, che aveva già esordito in solitaria tre anni prima con l’ottimo Macbeth (2021) con Denzel Washington. Tanto quanto è cupo, oscuro, profondo e raffinato il film di Joel, tanto è colorato, scanzonato, leggerissimo quello di Ethan, che filma una vecchia sceneggiatura scritta da lui con la moglie Tricia Cooke, già montatrice dei film girati in coppia dai due fratelli. Qualcuno l’ha definita, a ragione, una commedia queer on the road (la stessa Cooke si identifica come queer), e in effetti ci sono tutti gli stereotipi sia del buddy-movie on the road sia della commedia saffica che spopola ormai da diversi anni. Il ribaltamento dei topos classici del noir (basti pensare al contenuto della valigetta/macguffin della vicenda) rivela che Coen non ha dimenticato il cinema fatto con il fratello (e ci mancherebbe!) nè le rotture dell’altro alfiere del post-modernismo anni novanta, ovvero Tarantino, ma il film non è nulla di più che una coppia sbiadita (nonostante i colori sgargianti) dei loro film migliori, privo di personaggi di contorno davvero irresistibili (eccezion fatta forse per la Sukie di Feldstein), affidato a una trama fin troppo esile e a dialoghi carini ma non impagabili, politicamente scorretti quanto si vuole (è probabilmente il film con più dialoghi sui vibratori della storia del cinema) ma mai davvero graffianti, e alla fine la riuscita dell’opera sembra affidata esclusivamente alle doti delle due attrici protagoniste, in effetti molto brave e in parte. Davvero brutte, invece, le animazioni in CG degli inserti psichedelici e dei titoli di coda. Per ora Joel batte Ethan abbondantemente, ma si vedrà cosa ci riserva il futuro. Forse per evitare che si perdessero accenti e trovate linguistiche affidate allo slang geografico e temporale della vicenda, il film è arrivato in sala con sottotitoli ma senza doppiaggio. Musiche del coeniano Carter Burwell.

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Macbeth (2021)

(The Tragedy of Macbeth)

Regia di Joel Coen

con Denzel Washington (Macbeth), Frances McDormand (Lady Macbeth), Corey Hawkins (Macduff), Alex Hassell (Ross), Bertie Carvel (Banquo), Brendan Gleeson (Re Duncan), Harry Melling (Malcolm), Miles Anderson (Lennox), Brian Thompson (assassino), Scott Subiono (assassino), Moses Ingram (Lady Macduff), Lucas Barker (Fleance), Kathryn Hunter (le streghe), Stephen Root (il portiere).

PAESE: USA 2021
GENERE: Drammatico
DURATA: 105′

Mentre torna vincitore da una battaglia, il condottiero Macbeth incontra tre streghe che gli predicono un futuro da re. Ossessionato dalla profezia, spronato dalla moglie assetata di potere, elimina il sovrano e ne prende il posto. Divenuto un tiranno sanguinario, scivola pian piano nella follia.

Dalla tragedia in cinque atti (1605-1608) di William Shakespeare, adattata dallo stesso Coen che, per la prima volta, lavora in solitaria senza il fratello Ethan. Nel sottolineare la grande attualità della tragedia e la sua natura di apologo sul potere e sui suoi effetti (negativi), Coen guarda al cinema del passato ma punta, in maniera se possibile maggiore rispetto ad Orson Welles (che girò la sua versione nel 1948), ad un’essenzialità estrema che cela il desiderio di raccontare gli uomini (e le donne) e i loro sentimenti prima di tutto, aspirando alla parabola universale. Per questo il regista prosciuga tanto il testo quanto gli stilemi della sua rappresentazione, inserendo i personaggi dentro scenografie minimali, esaltate da un bianco e nero di grande potenza espressiva e da un uso espressionista della luce (fotografia di Bruno Delbonnel). La scena in cui Macbeth cammina verso il compimento dell’omicidio che darà il via a tutto quanto, con la luce che filtra dagli archi e scandisce sukl suo volto l’alternarsi di luce/buio (e dunque di bene/male) è un pezzo di grandissimo cinema.

Ma è raffinata anche la dimensione sonora, fatta di molti rumori che paiono rintocchi (colpi alle porte, gocce d’acqua e di sangue che cadono) e sottolineano una delle chiavi di lettura nuove scelte dal regista: rispetto al testo originario, Lord Macbeth e sua moglie sono ormai avanti con l’età e impossibilitati a mettere al mondo dei figli, e dunque la loro disperata ossessione per il potere, per il diventare qualcuno, è anche un tentativo di fuggire alla morte, di fare qualcosa di grande prima di passare all’altro mondo. E i rintocchi continui sono il simbolo di un tempo che sta per scadere. Ineluttabile come un noir, dunque, e questo lo rende un film coeniano al 100%. Interessante l’uso del primo piano, forse debitore del cinema di Dreyer, qui sfruttato per esaltare la presenza umana DENTRO le inquadrature, non a caso affidate a un desueto formato di 1,33:1 (quello dei tempi del muto, per intenderci). Gigantesca interpretazione di Washington, un po’ rigida quella della McDormand (moglie del regista e con lui anche produttrice). Musiche di Carter Burwell, abituale collaboratore dei fratelli Coen. Prodotto e distribuito da Apple TV+ e girato interamente in studio. Tre candidature agli Oscar (Washington, Delbonnel, e le scenografie di Stefan Dechant e Nancy Haigh) ma nessuna vittoria.

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Tarantola

(Tarantula!)

Regia di Jack Arnold

con John Agar (dottor Matt Hastings), Mara Corday (Stefania “Steve” Clayton), Leo G. Carroll (professor Gerald Deemer), Nestor Paiva (sceriffo Jack Andrews), Ross Elliott (Joe Burch), Edwin Rand (tenente Nolan), Raymond Bailey (professor Townsend), Hank Patterson (Josh), Bert Holland (Barney E. Russell).

PAESE: USA 1955
GENERE: Fantascienza
DURATA: 80′

Una tarantola, divenuta gigantesca in seguito a sconsiderati esperimenti, semina il terrore nella piccola cittadina di Desert Rock, in Arizona. Il medico locale, aiutato da una bella ricercatrice, cerca di fermarla.

Ispirato nella premessa a No Food For Thought, un episodio della serie televisiva Science Fiction Theatre diretto dallo stesso Arnold e scritto da Robert M. Fresco (qui accreditato come sceneggiatore insieme a Martin Berkeley), è il secondo film di fantascienza sugli insetti giganti dopo il pregevole Assalto alla Terra (1954) di Gordon Douglas. Una metafora del clima di paranoia della guerra fredda e, in maniera ancor più esplicita rispetto al precedente film di Arnold, Il mostro della laguna nera, una riflessione sui rischi della scienza e sulla natura oltraggiata che si ribella. E infatti alla fine, nonostante l’annientamento del mostro, non c’è nessuna vera vittoria. Memorabili effetti speciali, regia solida, ottima ambientazione desertica, zero cedimenti di ritmo e parentesi horror/splatter decisamente audaci per l’epoca. Quello di Arnold rimane un cinema artigianale, ma di grande qualità e spessore. Nei panni del comandante dello squadrone di aerei che bombarda la tarantola spunta, pur col volto coperto dal respiratore, un 24enne Clint Eastwood. Ambientato in un’immaginaria cittadina dell’Arizona, fu in realtà girato in California, su set solitamente utilizzati per i film western.

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