L’ultima volta che siamo stati bambini

Regia di Claudio Bisio

con Vincenzo Sebastiani (Italo), Carlotta De Leonardis (Vanda), Alessio Di Domenticantonio (Cosimo), Lorenzo McGovern Zaini (Riccardo), Federico Cesari (Vittorio), Marianna Fontana (suor Agnese), Claudio Bisio (Anacleto Barocci), Antonello Fassari (nonno Cosimo), Fabian Grutt (sergente), Giancarlo Martini (oste), Nikolai Selikovsky (tenente tedesco).

PAESE: Italia 2023
GENERE: Commedia drammatica
DURATA: 107′

1943. Quando in seguito al rastrellamento del ghetto di Roma l’ebreo Riccardo è mandato con la sua famiglia in Germania, i suoi tre amici Italo, figlio di un federale fascista, Cosimo, che vive col nonno da quando il padre è stato mandato al confino, e Vanda, un’orfana che vive in convento, partono a piedi, seguendo le rotaie, per andare a salvarlo. Il fratello di Italo e la suora responsabile di Vanda si mettono sulle loro tracce per riportarli a casa.

Esordio registico di Bisio, che sceglie di adattare (con Fabio Bonifacci) l’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei (2018). Le intenzioni sono buone e senza dubbio sincere, i bambini sono bravi e il messaggio condivisibile e ben esposto, ma il film è davvero troppo didascalico, poco credibile negli sviluppi, disarmonico nell’optare per uno stile leggero, a tratti farsesco, per poi finire inaspettatamente in tragedia distanziandosi dal romanzo e rifacendosi in maniera rischiosa a Il bambino con il pigiama a righe. Qualcuno ha scomodato La vita è bella o addirittura La grande guerrama in entrambi i casi l’equilibrio tra riso e pianti era molto più riuscito, anche grazie a personaggi che partivano sì dalla macchietta ma finivano per essere più veri che mai. Qui invece le caratterizzazioni sono piuttosto superficiali, le battute fiacche, e lo spunto favolistico alla Stand by me non è sostenuto da una forma adeguata. Un peccato, perché i nomi coinvolti facevano sperare in qualcosa di diverso. Pubblico e critica divisi a metà.

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Songbird

(Songbird)

Regia di Adam Mason

con KJ Apa (Nico), Sofia Carson (Sara), Craig Robinson (Lester), Bradley Whitford (Mr. Griffin), Demi Moore (Piper Griffin), Peter Stormare (Emmett Harland), Alexandra Daddario (May), Paul Walter Hauser (Michael Dozer), Elpidia Carrillo (Nonna Lita), Lia McHugh (Emma Griffin).

PAESE: USA 2020
GENERE: Fantascienza
DURATA: 85′

2024. Quattro anni dopo i primi casi, il Covid è mutato diventando ancora più pericoloso. I contagiati che non ne muoiono sono rinchiusi in speciali dipartimenti controllati dall’esercito, dai quali è impossibile avere contatti con l’esterno. Il lockdown è ormai globale, e chi ancora non si è ammalato non può per nessuna ragione abbandonare la propria abitazione. Gli unici che possono girare più o meno liberamente sono gli immuni, dotati di un braccialetto-identificativo giallo. Nico, un immune che di mestiere fa il corriere in bicicletta, cerca disperatamente di salvare la fidanzata Sara, che sta per essere prelevata dall’esercito dopo il decesso della nonna. La sua strada incontrerà quindi quella dei coniugi Griffin, ricchi imprenditori che illegalmente vendono braccialetti gialli a chi vuole passare per immune…

Girato nella Los Angeles spettrale e semi-deserta per il lockdown del 2020, con una troupe ridotta all’osso che si sottoponeva giornalmente a rigidi controlli di sicurezza, è uno dei pochi film girati durante la pandemia e in assoluto il primo film a servirsi della vicenda per creare una distopia. L’operazione è stata accusata di lucrare su una tragedia mondiale mentre questa era ancora in atto, ma l’aspetto peggiore del film è probabilmente quello di accodarsi alle tante teorie complottiste che parlavano di dittatura sanitaria e si scagliavano contro soluzioni come il green pass paragonando il trattamento riservato ai non vaccinati a quello che i nazisti riservavano agli ebrei. Nell’immaginare la trasformazione dello stato in uno stato di polizia con la scusa della sicurezza e della salute pubblica, Mason e il suo sceneggiatore Simon Boyes non solo non ci prendono minimamente (siamo nel 2024, e niente di tutto ciò è accaduto), ma fanno anche una cattiva azione ai danni di quei governi che, nel bene e nel male, stavano ancora cercando di arginare il problema e salvare più vite possibile. Invece nel loro film i malati sono trascinati a forza nei lager dai quali non usciranno mai più, il braccialetto giallo/green pass è uno specchietto per le allodole sul quale può tranquillamente lucrare la malavita, e i governi non sono più comandati dai politici bensì dal gotha dell’OMS. Ma indipendentemente di quanto sia deprecabile a livello ideologico, il film è sbagliato anche a livello strutturale, banalissimo nel tratteggiare la love story tra i protagonisti, incapace di valorizzare le ambientazioni come di creare la suspense, affidato a personaggi mai credibili interpretati da attori svogliati (la Moore) o sempre uguali a se stessi (Stormare). Prodotto da Michael Bay, è un film di cui potevamo tranquillamente fare a meno.

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I viaggiatori della sera

Regia di Ugo Tognazzi

con Ugo Tognazzi (Orso Banti), Ornella Vanoni (Nicki Banti), Corinne Cléry (Ortensia), Roberta Paladini (Anna Maria Banti), Pietro Brambilla (Francesco Banti), José Luis López Vázquez (Simoncini), William Berger (Cochi Fontana), Manuel de Blas (Bertani), Deddi Savagnone (Mila Patrini), Leo Benvenuti (Sandro Zafferi), Enrico Tricarico (il direttore), David Fernández Álvaro (Antonluca), Riccardo Tognazzi (il giardiniere).

PAESE: Italia, Spagna 1979
GENERE: Fantascienza
DURATA: 104′

In un futuro non lontano, per far fronte all’eccessiva sovrappopolazione, le persone che raggiungono 49 anni d’età sono costrette ad abbandonare qualsiasi attività e a trasferirsi in un residence sul mare dal quale non possono più uscire. I coniugi Banti raggiungono loro malgrado la struttura che gli è stata assegnata,  scoprendo oltretutto che ogni settimana un gruppo di ospiti, selezionati attraverso un gioco stile mercante in fiera, vengono soppressi con la scusa di partecipare ad una crociera. Ma un gruppo di “villeggianti”, sostenuti da alcuni membri dello staff, progettano la fuga…

Quinta (ed ultima) regia di Tognazzi, che adatta con Sandro Parenzo un romanzo omonimo di Umberto Simonetta. Un film anomalo, lontano dai canoni del cinema italiano e da quelli dello stesso Tognazzi, che alle soglie dei sessant’anni riflette sulla vecchiaia e sulla presunta inutilità dei vecchi, spesso dimenticati dai giovani e dalla politica che li ritiene oramai inutili. Il risultato è un’opera cattiva (incattivita?), in cui il regista/attore immagina un mondo distopico in cui l’unica libertà rimasta all’uomo è quella del turpiloquio, in controtendenza al politicamente corretto imperante, e l’unico sfogo possibile resta quello sessuale, ovvero imperniato sui suoi peggiori istinti animaleschi. Anche se, in fondo, si tratta di un film sull’amore: senza di esso, non ha più senso nemmeno la rivoluzione. Indeciso se scivolare verso il grottesco o se attenersi ad un certo realismo, non privo di passi deliranti (la tappa presso l’oasi dei due gemelli), penalizzato da un finale troppo programmatico (quello sullo zoo galleggiante), nel quale l’impellenza del messaggio pare “schiacciare” definitivamente la coerenze filmica, rimane comunque un prodotto interessante e per certi versi anticipatore, intelligente, pieno di trovate e pezzi struggenti (l’addio di Nicki). Nonostante questo, critica e pubblico lo bocciarono senza riserve, forse perché davvero troppo audace per le rotte cinematografiche (soprattutto italiane) dell’epoca. Una stroncatura della quale Tognazzi soffrì a tal punto che non si sarebbe mai più cimentato nella regia. Ma anche la censura ci andò pesante: vietò il film ai 18 anni, poi scesi a 14 dopo il ricorso (un interessante documento sull’argomento è l’intervista che Baudo fece a Tognazzi a Domenica In poco dopo l’uscita della pellicola). Grande prova della Vanoni. Girato in Spagna, nei pressi delle Canarie, sfruttando alcuni paesaggi brulli e dal vago sapore lunare che accentuano la dimensione distopica della vicenda. Fotografia di Ennio Guarnieri. Cameo di Ricky Tognazzi, ancora accreditato come Riccardo, e unico ruolo d’attore dello sceneggiatore Leo Benvenuti. Uno di quei rari casi di film non particolarmente riuscito che però vale la pena vedere.

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Brainstorm – Generazione elettronica

(Brainstorm)

Regia di Douglas Trumbull

con Christopher Walken (Michael Brace), Natalie Wood (Karen Brace), Louise Fletcher (Lillian Reynolds), Cliff Robertson (Alex Terson), Donald Hotton (Landan Marks), Alan Fudge (Robert Jenkins), Jordan Christopher (Gordy), Joe Dorsey (Hal Abramson), Jason Lively (Chris Brace).

PAESE: USA 1983
GENERE: Fantascienza
DURATA: 106′

Un team di scienziati costruisce un marchingegno che può registrare le esperienze sensoriali per poi farle rivivere a chiunque lo utilizzi. Quando l’invenzione finisce nelle mani dei militari, che vogliono utilizzarla per bruciare il cervello al nemico, gli scienziati si ribellano.

Secondo film diretto da uno degli addetti agli effetti speciali più apprezzato della storia del cinema (lavorò, tra gli altri, a 2001: odissea dello spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Blade Runner), che mette in immagini una sceneggiatura di Philip Frank Messina e Robert Stitzel ispirata ad un soggetto di Bruce Joel Rubin. Se come thriller non lo si può ritenere del tutto riuscito, principalmente a causa di una suspense che funziona in maniera altalenante, come prodotto fantascientifico, ma anche come apologo sui rischi della scienza, è invece denso di idee e trovate, alcune delle quali persino anticipatrici tanto rispetto al genere quanto rispetto alla realtà. Ma è interessante anche a livello visivo, a partire dalla scelta di utilizzare due diversi aspect ratio per distinguere le immagini che appartengono alla realtà, filmate in 1,85:1 e con lenti a focale lunga, e quelle che invece appartengono alla dimensione della registrazione tecnologica e sensoriale, filmate in formato panoramico e col ricorso a grandangoli talvolta estremi. Un’idea che penalizza la visione televisiva (le immagini in 1,85:1 diventano troppo piccole rispetto allo spazio dello schermo), ma che valorizza i contenuti del film e sottolinea il concetto che realtà e registrazione di essa possono essere molto diverse. Guardate con attenzione le visioni iperspaziali che Michael ha nel finale: vi ricordano qualche altro film? L’idea di partenza è la stessa identica di un film che uscirà dodici anni dopo e ben più famoso, Strange Days di Kathryn Bigelow. Si tratta dell’ultimo film di Natalie Wood (1938-1981), che morì terminate le riprese ma prima che uscisse in sala. Musiche di James Horner.

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Marilyn Monroe, fenomenologia di una diva

Cliccando sul link sottostante potrete leggere le slide e trovare diversi spunti in merito al cinema di Marilyn. Le slide, a cura di Riccardo Poma (autore e fondatore del blog nehovistecose) sono state presentate durante il ciclo di incontri E adesso parliamo di cinema presso Informagiovani Cossato (BI), durante l’anno 2023/2024.

NOTA: cliccando sui titoli dei film presenti nelle slide potrete leggerne le recensioni.

Marilyn Monroe, fenomenologia di una diva

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Rollerball

(Rollerball)

Regia di Norman Jewison

con James Caan (Jonathan E.), John Houseman (Bartholomew), Maud Adams (Ella), John Beck (Moonpie), Moses Gunn (Cletus), Pamela Hensley (Mackie), Barbara Trentham (Daphne), Shane Rimmer (Rusty), Richard LeParmentier (assistente di Bartholomew), Ralph Richardson (il bibliotecario).

PAESE: USA 1975
GENERE: Fantascienza
DURATA: 125′

Anno 2018. Non esistono più governi, ma un’unione di corporazioni i cui dirigenti hanno potere decisionale su ogni aspetto della vita dei cittadini. Le guerre non esistono più, e le masse sfogano la propria attitudine violenta nel rollerball, sport violentissimo giocato su pattini e motociclette nel quale si deve gettare una palla di ferro in un foro. Dopo dieci anni di dominio incontrastato, il capitano della squadra di Huston, Jonathan E., è costretto dai dirigenti a dimettersi senza un apparente motivo. Lui non ci sta.

Da un racconto breve di William Harrison, anche sceneggiatore, uno dei più noti film di fantascienza distopica degli anni settanta, basato sull’idea che lo sport, meglio se violento, può essere utilizzato per rabbonire le masse. In questo mondo in mano alle multinazionali non esiste più nemmeno la guerra, sia perché le suddette non hanno alcun bisogno di ostacolarsi (ce n’è per tutti), sia perché ogni intento violento è sfogato nel rollerball. Il film vanta parecchie trovate azzeccate e decisamente attuali, come la politica figlia del potere economico, le donne-oggetto, la natura costantemente mortificata (agghiacciante la scena in cui i ricchi incendiano gli alberi per gioco), le intelligenze artificiali che riscrivono i libri e dunque la storia, ma è penalizzato da un ritmo troppo blando e da troppe lungaggini, riscattate soltanto dalle ottime sequenze d’azione. Regia modesta (ma quanti zoom!) riscattata da un ottimo montaggio (di Antony Gibbs). Gustosa invece la colonna sonora, curata da André Previn e composta quasi esclusivamente da brani di musica classica. Il finale è un po’ ambiguo a livello ideologico, ma rimane notevole. Bravo Caan. Da confrontare con Anno 2000 – La corsa della morte, b-movie targato Roger Corman uscito qualche mese prima. Un terribile remake nel 2002.

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Perfect Days

(Perfect Days)

Regia di Wim Wenders

con Kōji Yakusho (Hirayama), Tokio Emoto (Takashi), Arisa Nakano (Niko), Aoi Yamada (Aya), Yumi Asō (Keiko), Sayuri Ishikawa (Mama), Tomozaku Miura (Tomoyama), Masahiro Kômoto (proprietario del bar), Min Tanaka (il senzatetto).

PAESE: Giappone, Germania 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 124′

Hirayama è un mite uomo di mezza età che si occupa della pulizia dei bagni pubblici del quartiere di Shibuya (Tokyo), recentemente riqualificati. Conduce una vita semplice ed essenziale, fatta di piccole cose che sembrano renderlo sereno ed appagato. Ama prendersi cura delle piantine che “salva” per strada, scattare fotografie analogiche in bianco e nero, leggere libri, ascoltare, rigorosamente su musicassetta, il rock americano degli anni sessanta e settanta. La sua esistenza è scandita da diversi incontri che animano una routine (apparentemente) sempre identica.

Nel 2020 il comune di Shibuya chiese a Wenders di realizzare un documentario che raccontasse e promuovesse il progetto di riqualificazione urbana The Tokyo Toiletbasato sulla costruzione di bagni pubblici di alta qualità igienica e architettonica che favorissero la fruibilità degli spazi comuni del quartiere. Colpito dall’iniziativa e dal suo potenziale filosofico (e cinematografico), il regista tedesco ha deciso di raccontarla attraverso un film di finzione, scrivendo una sceneggiatura con Takuma Takasaki imperniata sulla figura più umile incontrata durante i sopralluoghi, ovvero il responsabile delle pulizie. Non chi ha ideato il progetto (l’imprenditore Kōji Yanai), non i grandi architetti nipponici che hanno progettato le toilet (tra i quali Sōsuke Fujimoto e Fumihiko Maki), ma colui che, nonostante venga identificato dalla società in cui vive come il gradino più basso della piramide gerarchica, si rivela importante almeno quanto gli altri, perché è attraverso l’amore e la dedizione che mette nel suo lavoro che rende quel progetto «reale». Il racconto sulla poesia del quotidiano e la gioia dell’incontro rimanda inevitabilmente al cinema di Ozu (prima di perfect day, l’ultimo film del regista girato nel paese del sol levante fu Tokyo-Ga, dedicato proprio al regista di Viaggio a Tokyo), ma Wenders gira un film perfettamente calato nell’attualità, auspicando un ritorno al passato che non è tanto esercizio nostalgico quanto tentativo di riscoprire l’essenza reale delle cose, come dimostra il fatto che ogni mattina Hirayama guardi il cielo (non uno smartphone, come facciamo tutti noi) e, indipendentemente dal meteo, sorrida. Anche perché passato e futuro, in fondo, contano poco: conta soltanto l’adesso. Ed è di questo che bisogna imparare a gioire. Non a caso il protagonista si sofferma spesso sulla luce che filtra, ogni giorno in maniera differente e dunque unica, tra le foglie degli alberi, un fenomeno che in giapponese prende il nome di komorebi e che indica anche uno stato d’animo, quello che spinge a trovare qualcosa che possa suscitare serenità anche nei momenti peggiori della vita.

La storia di Hirayama è una storia come tante altre, che racconta l’ordinaria straordinarietà dell’esistenza ed è fatta non di scene madri, ma di piccoli, irripetibili (e per questo ancora più struggenti) momenti. La macchina da presa sta sempre con lui, non lo abbandona mai, rivelando che il cinema per Wenders deve ancora sempre e comunque raccontare l’uomo e le sue azioni. E avere il coraggio di sfidare le mode del momento, prendendosi il tempo che serve e scegliendo strade ben poco commerciabili, come quella della lentezza, che non diventa mai prolissità nonostante qualcuno direbbe che nel film non capiti praticamente nulla. Una piccola, grande opera d’arte che spalanca il cuore. L’ultima inquadratura, oltre a ribadire ancora una volta il grandissimo talento attoriale di Yakusho (premiato a Cannes), è un pezzo di grande cinema che regala una grande emozione. Girato nel vetusto formato 4:3, a rimarcare l’idea di un necessario ritorno alla purezza (anche quella del cinema), ma anche a ribadire l’idea di una spazialità registica che mette sempre al centro la figura umana senza rinunciare allo sfondo (in questo caso fondamentale). Straordinaria colonna sonora, non solo per la scelta dei brani ma anche per come Wenders li rende ogni volta perfetti per il momento che stiamo guardando. Si sentono tra gli altri gli Animals, Patti Smith, i Rolling Stones, e ovviamente Lou Reed, sia coi Velvet Underground sia da solo (suo lo straordinario brano che dà il titolo al film e, in qualche modo, ne sottolinea lo spirito ottimista ma malinconico). Menzione speciale alla luminosa fotografia di Franz Lustig. Candidato ai premi Oscar come miglior film internazionale, ma battuto da La zona d’interesse. Da vedere.

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La zona d’interesse

(The Zone of Interest)

Regia di Jonathan Glazer

con Christian Friedel (Rudolf Höss), Sandra Hüller (Hedwig Höss), Medusa Knopf (Elfriede), Daniel Holzberg (Gerhard Maurer), Sascha Maaz (Arthur Liebehenschel), Max Beck (Schwarzer), Wolfgang Lampl (Hans Burger), Johann Karthaus (Klaus Höss), Luis Noah Witte (Hans-Jurgen Höss), Nele Ahrensmeier (Inge-Brigit Höss).

PAESE: Regno Unito, Polonia 2023
GENERE: Drammatico
DURATA: 105′

1943. Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, vive con la moglie e i cinque figli in una villetta adiacente al lager. La serenità della famigliola vacilla quando il gerarca viene trasferito, apparentemente senza motivo, ad un altro incarico che lo porta lontano da casa.

Scritto dal regista prendendo spunto dal romanzo omonimo (2014) del britannico Martin Amis, morto di cancro durante la lavorazione, uno dei più interessanti e per certi versi sconvolgenti film sulla shoah, nonostante non contenga scene di morte e non mostri mai cosa succede al di là del muro della villetta degli Höss. Glazer gioca sul fatto che tutti noi sappiamo già esattamente cosa accadeva DENTRO Auschwitz, anche senza vederlo per l’ennesima volta, concentrandosi piuttosto su ciò che accadeva appena FUORI, ovvero una normalissima e persino abitudinaria esistenza come mille altre, diversa da quella di chiunque solo ed esclusivamente per la natura del lavoro del pater familias. Qualcuno ha parlato di apologo sulla banalità del male, ma sarebbe più corretto parlare di normalità del male, che qui sembra non avere nemmeno cognizione di se stesso (del resto a Norimberga Höss fu uno dei gerarchi che scelsero come linea difensiva la semplice fedeltà ad ordini dati da altri) né tanto meno delle responsabilità dinnanzi alla storia. Il regista filma l’ordinaria quotidianità degli Höss come un entomologo, utilizzando inquadrature statiche e sempre uguali per mantenere l’assoluto distacco nei confronti del protagonista e evitando volutamente grandi scene madri. Il suo è uno dei pochi film della storia del cinema il cui senso, sia drammaturgico che politico, si genera dall’intersezione di due piani sensoriali differenti, quello visivo, tutto costruito sull’ordinario menage degli Höss, e quello sonoro, composto dai suoni agghiaccianti che provengono dall’altro lato del muro (urla, pianti, spari) e da un tessuto sonoro cupo e particolarmente inquietante (di Mica Levi).

Una scelta stilistica rigorosa che sembra sottolineare l’impossibilità di raccontare attraverso le armi della finzione qualcosa di irraccontabile, preferendo evocarlo per ossimoro. Le inquadrature nere del prologo e dell’epilogo sembrano sottolineare proprio questo concetto. Ma il film è anche una riflessione su una delle questione più discusse del novecento, ovvero come sia stato possibile che così tanta gente abbia potuto con così poche remore avallare quello che Hitler fece al popolo ebraico. Come ha spiegato lo stesso Glazer, la sequenza finale non è la rappresentazione pur effimera di una presa di coscienza di Höss, quanto una risposta fisica (e dunque innegabile, insindacabile) rispetto a ciò di cui si è macchiato e che ora mina la sua salute (la cenere che ha respirato vivendo accanto al campo). E gli inserti nel presente, oltre che possedere una valenza storica precisa, sottolineano che dobbiamo continuare a togliere la polvere dalla memoria per evitare che accada ancora. Recitato in tedesco. Interessante il lavoro del direttore della fotografia Lukas Zal, che sembra voler desaturare i colori per restituire anche a livello visivo la piatta esistenza degli Höss. Il titolo si riferisce al modo il cui il comando tedesco chiamava la zona adiacente ai campi di concentramento. Oscar per il miglior film internazionale e per il miglior montaggio sonoro. Da non perdere.

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Gattaca – La porta dell’universo

(Gattaca)

Regia di Andrew Niccol

con Ethan Hawke (Vincent Freeman), Uma Thurman (Irene Cassini), Jude Law (Jerome Eugene Morrow), Loren Dean (Anthony Freeman), Alan Arkin (detective Hugo), Gore Vidal (direttore Josef), Ernest Borgnine (Caesar), Tony Shalhoub (German), Xander Berkeley (dottor Lamar), Blair Underwood (genetista), Elias Koteas (Anthony Freeman Sr.), Jayne Brook (Marie Freeman).

PAESE: USA 1997
GENERE: Fantascienza
DURATA: 107′

Nel futuro prossimo, la genetica permette di selezionare le caratteristiche di qualsiasi nascituro, scansando il pericolo di malattie, malformazioni, ma anche banalmente personalità difficili da gestire. E così il mondo si divide in due categorie, validi, concepiti seguendo questa pratica, e non-validi, concepiti alla vecchia maniera, ovvero lasciando fare al caso e alla natura. Il non-valido Vincent, intenzionato a raggiungere con ogni mezzo il proprio sogno di viaggiare nello spazio (un privilegio concesso soltanto ai validi), compra l’identità del valido Jerome, paraplegico in seguito ad un incidente, e spacciandosi per lui fa carriera dentro Gattaca, l’ente aerospaziale che organizza i viaggi interplanetari…

Esordio registico del neozelandese Niccol, già autore della sceneggiatura di The Truman Show di Peter Weir (che però uscirà l’anno seguente). Un affascinante, intelligente prodotto di fantascienza distopica che parte dalle implicazioni etiche di alcuni grandi progressi genetici della seconda metà degli anni novanta (la clonazione della pecora Dolly risale all’anno precedente) per mostrare come, spinti all’estremo, potrebbero un giorno essere utilizzati per creare un mondo governato da una razza considerata pura, in una ricerca delle perfezione genetica non molto lontana da quella cui aspiravano i nazisti. Ma è anche un inno alla forza di volontà, attraverso cui l’uomo può raggiungere i suoi obiettivi sfidando tanto le imposizioni sociali quanto il destino (sin dalla nascita, Vincent è ritenuto un debole che morirà giovane). E se l’immancabile storia d’amore è in parte un cedimento alle lusinghe del cinema hollywoodiano, il modo in cui è raccontato il rapporto tra Vincent e Jerome (quest’ultimo un personaggio davvero potente) regala inaspettati picchi poetici, raggiunti senza sbavature retoriche e senza ricatti emotivi. Il budget non altissimo è riscattato dalla rigorosa regia di Niccol, capace di imbastire una notevole suspense da film giallo senza mai rinunciare alla riflessione profonda. Le scenografie retrò futuribili ricordano da vicino un altro celebre film di fantascienza distopica, Alphaville di Godard (richiamato anche nel design delle automobili, che però sono elettriche invece che a benzina). La stessa fotografia vintage di Slawomir Idziak lavora per creare uno stile visivo futuristico ma che si rifà al passato. Hawke e la Thurman si innamorarono dopo aver lavorato al film. Danny De Vito tra i produttori. Il termine GATTACA è composto dalle lettere che identificano le quattro basi azotate del DNA, Guanina, Adenina, Timina e Citosina. La sede del centro è in realtà il Marin County Civic Center di San Rafael, California, progettato da Frank Lloyd Wright e già apparso in L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas.

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Anno 2000 – La corsa della morte

(Death Race 2000)

Regia di Paul Bartel

con David Carradine (Frankenstein), Simone Griffeth (Annie Smith), Sylvester Stallone (Mitraglia Joe), Mary Woronov (Calamity Jane), Roberta Collins (Grimilde), Martin Kove (Cesare), Louisa Moritz (Myra), The Real Don Steel (Junior Bruce), Joyce Jameson (Grace Pander), Harriet Medin (Abramina Lincoln), Sandy McCallum (il presidente), Carle Bensen (Harold).

PAESE: USA 1975
GENERE: Fantascienza
DURATA: 80′

Anno 2000. Gli Stati Uniti sono governati da un regime totalitario. Una volta l’anno, per dar sfogo alla violenza sopita delle masse, si organizza una violentissima gara coast to coast nella quale trionfa chi investe e uccide più persone. Mentre un gruppo di ribelli organizza diversi sabotaggi, il campione in carica Frankenstein sembra avviato verso un’ennesima vittoria. Ma le cose non sono come sembrano…

Da un’idea di Ib Melchior, adattata da Robert Thom e Charles Griffith, un godibile b-movie di sci-fi distopica prodotto da Roger Corman e diretto dall’ex attore Bartel. L’idea di un governo totalitario che ammansisce il popolo legalizzando l’omicidio e spettacolarizzando la violenza s’era già vista ne La decima vittima (1965) di Elio Petri, ma per la prima volta è associata alla componente sportiva, anticipando diversi film ben più celebrati come Rollerball, uscito pochi mesi dopo, L’implacabile con Schwarzy, lo stesso Hunger Games. Violentissimo (ma il sangue tende all’arancione! ), spudoratamente pacchiano (si pensi al design delle automobili), datato a livello registico (imbarazzanti i velocizzamenti delle sequenze d’azione), eppure lucido ed estremamente attuale sul versante satirico. Alcune sequenze sono talmente folli (si pensi a quella degli anziani in sedia a rotelle che si danno l’eutanasia posizionandosi in mezzo alla strada dove passa la corsa) da sfiorare la genialità. Finale particolarmente delirante. In termini di cast si fa notare, un anno prima dell’exploit di Rocky, un semi esordiente Stallone nei panni di un brutale bifolco armato di mitra. Fotografia del grande Tak Fujimoto (ma non si vede). Cameo di John Landis nei panni di un meccanico. Un sequel, un reboot e un remake con già tre sequel.

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