Black Snake Moan

(Black Snake Moan)

Regia di Craig Brewer

con Samuel L. Jackson (Lazarus), Christina Ricci (Rae), Justin Timberlake (Ronnie), S. Epatha Merkerson (Angela), John Cothran Jr (Reverendo R.L.), David Banner (Tehronne), Michael Raymond- James (Gill), Neimus K. Williams (Lincoln).

PAESE: USA 2007
GENERE: Drammatico
DURATA: 111′

In un assolato e sonnacchioso sobborgo di Memphis, Tennessee, si incrociano le avventure dell’anziano bluesman contadino Laz (Lazarus, Lazzaro), appena piantato dalla moglie, fuggita col fratello, e della giovane Rae, malata di sesso (probabilmente ninfomane) e continuo bersaglio degli uomini della cittadina. Il primo tenterà di salvare l’anima della seconda tramite il blues, la religione, e una gigantesca catena che le impedisce di saltare addosso agli uomini che incontra.

Non è una novità che i film anti- convenzionali non trovino praticamente mai in Italia un meritato successo di pubblico. Ma è sicuramente una “mascalzonata distributiva” che questo Black snake moan (letteralmente, “il lamento del serpente nero”, titolo di una vecchia canzone blues) non sia apparso nemmeno nelle nostre sale, bensì che ci sia giunto solo tramite dvd (anche se, va dato atto al servizio pubblico, la Rai l’ha trasmesso sui suoi canali digitali). La storia è quella di un’amicizia tra due opposti che si attraggono, vicini nei loro problemi e unici in grado di capirsi a vicenda. Tra loro, il possente e romantico suono del blues, che qui torna ad essere ciò che era in principio, ovvero una musica per tutti basata sull’amore (inteso come sentimento universale) che salva e conforta. Proprio questo fa lo scorbutico Laz, impegnandosi a fondo per salvare una ragazza insalvabile che allo stesso tempo salva lui stesso. La redenzione arriva dal blues, dal suono sporco della chitarra elettrica, dai localacci da due soldi dove ancora la gente apprezza il buono delle cose: il serpente nero è ovviamente il male, qui inteso sia come la “malattia della follia”, sia come un “giudizio basato sul pregiudizio” che pretende di “punire” rifiutandosi di “curare”. Ed è insito nell’animo di pochi uomini (come Laz) il barlume di bene che porta alla sua sconfitta. È un film cristiano, non cattolico. Non parla di perdono, non parla di pietà, parla di “salvazione”. È un film sui perdenti che dimostrano maggiore dignità dei cosiddetti vincenti. Sameul L. Jackson aggiunge un personaggio epico alla sua galleria di “duri dal cuore tenero”, e dimostra di essere un artista poliedrico a tutto campo (non è lui che suona la chitarra, ma la voce roca è la sua); Christina Ricci si offre generosamente alla cinepresa e, restando per tre quarti del film in mutande e maglietta, mostra un sex appeal da applausi capace di mutarsi in sommessa ed infantile tenerezza. Unica nota stonata è forse la pop star Justin Timberlake, che spesso non esprime come dovrebbe il tormento del suo sfaccettato personaggio. Brewer dirige con mano ferma e originale, coglie con sguardo ironico e allo stesso tempo tragico le finezze della bella sceneggiatura (scritta da lui medesimo) ed evidenzia il brillante lavoro fotografico d Amy Vincent, basato sui contrasti e ottimo nel suo uso “narrativo” dei colori (colori caldi e luce contrastata, irreale, nei momenti di distensione, colori freddi e luce soffusa in quelli di angoscia). L’ambientazione e l’atmosfera che ne deriva avvicina il film, anche tematicamente (l’arte come strumento di salvezza), al quasi contemporaneo ed egualmente interessante Una canzone per Bobby Long, con John Travolta e Scarlett Johansson. Fortunatamente rintracciabile in home video, è un film da non perdere.

Questa voce è stata pubblicata in 2000 - oggi, Genere Drammatico e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *