Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)

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Regia di Alejandro González Iňárritu

con Michael Keaton (Riggan Thomson), Zach Galifianakis (Jake), Edward Norton (Mike Shiner), Emma Stone (Sam Thomson), Naomi Watts (Leslie), Andrea Riseborough (Laura), Amy Ryan (Sylvia Thomson), Merritt Wever (Annie), Lindsay Duncan (Tabitha Dickinson).

PAESE: USA 2014
GENERE: Drammatico
DURATA: 119′

Diventato famoso a inizio anni ’90 per aver interpretato il supereroe Birdman, rimastogli suo malgrado incollato addosso, l’attore Riggan Thomson cerca il riscatto artistico interpretando a teatro un’opera di Raymond Carver sull’amore. Nei tre giorni che precedono la prima a Broadway, deve vedersela coi capricci degli attori, con una figlia tossicodipendente e con lo stesso Birdman, voce della sua coscienza che lo perseguita…

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Scritto a otto mani dal regista con Nicolas Giacobone, Alxander Dinelaris e Armando Bo, un bizzarro, anomalo, malinconico film da camera che prosegue la tradizione dei grandi film sul cinema. Ha una struttura labirintica in cui realtà e finzione (e quindi vita e cinema) si mescolano in maniera disinvolta senza soluzione di continuità: di ciò che vediamo, cosa è reale (nel senso di interno alla narrazione realistica) e cosa non lo è? E, soprattutto, dove finisce Riggan Thomson e inizia Michael Keaton e viceversa? Difficile dirlo. Certo è che l’attore interpretato (Riggan) è ricalcato a carta carbone su quello che lo interpreta (Keaton): nonostante i due Batman di Tim Burton, infatti, Keaton non divenne mai una star nel vero senso del termine, finì per essere identificato solo con Bruce Wayne e si ritrovò ad accettare anche film di bassa qualità nonostante un indiscusso talento attoriale. Insomma, un Viale del tramonto trapiantato nella nostra modernità squalliduccia e priva di poesia in cui i critici stroncano gli spettacoli senza nemmeno vederli e i likes sui social sono diventati sinonimo di successo (“Questo è potere”, dice la figlia di Riggan guardando il padre su Youtube): la gente non apprezza Riggan quando recita ma lo idolatra quando approda in mutande sul web. Eccola, l’inaspettata virtù dell’ignoranza: quella che oscura chi sa fare e regala fama e successo a chi non sa fare nulla (ma che quel nulla sa venderlo bene).

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Nel raccontare i rapidi mutamenti del ruolo dell’artista attraverso l’ultimo ventennio (dal 1992 di Birdman e di Batman ad oggi), Inarritu fa un film sull’incapacità (dell’artista o di tutti noi?) di distinguere la stima dall’amore e, quindi, sul bisogno di essere amati, sul palco e fuori. La scelta di girare tutto il film in piano sequenza, stile Nodo alla gola (ma Inarritu si fa aiutare dal digitale), può anche risultare eccessiva, ma non è fine a se stessa come ha scritto qualcuno. Anzi, è perfettamente funzionale al (meta) racconto: l’assenza di stacchi e di inquadrature d’insieme toglie allo spettatore il sollievo della boccata d’aria, dell’osservare da fuori, lo costringe a soffrire con Riggan; non ci sono scappatoie, non possiamo uscirne, proprio come l’attore non può uscire dal ruolo che lo rese famoso e dalla sua lucida follia depressiva. Insomma, in contrasto coi dettami del cinema classico cui ancora oggi si ispira il 90% dei film in sala, il regista non è una presenza invisibile che si limita ad orchestrare una storia ma è membro attivo della storia stessa. È lui il vero coprotagonista del film, molto di più dei comprimari.

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Così come coprotagonista è la colonna sonora, composta quasi interamente da un’ossessiva batteria jazz; lo strumento, coerentemente con il disinvolto andirivieni tra piano diegetico (attinente all’universo filmico del racconto) e piano extradiegetico (al di fuori dell’universo filmico del racconto, come appunto la musica di sottofondo), appare in scena nei posti più impensati suonata da un giovane batterista nero. E il gioco continua. Deliziose le frecciatine sullo star system (la battuta su Meg Ryan è da applausi) e sui film sui supereroi stile Marvel, evocati anche in una potentissima, strepitosa scena verso la fine. Quattro Oscar: film, regia, sceneggiatura e fotografia a Emmanuel Lubezki. L’avrebbe meritato, sia per il coraggio che per la bravura, anche Keaton. Regista eccessivo per antonomasia, Inarritu qua e la si perde in qualche scelta poco felice (come il bacio lesbo per portare alla Ola i fan di Mulholland Drive), ma basterebbe la magnifica inquadratura finale per apprezzare questo Birdman senza soffermarsi troppo sui diffetucci. Troppa carne al fuoco? Forse. Ma si può rimproverare a un regista di avere TROPPE buone idee? Secondo noi no. Dunque, da non perdere.

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