The Ward – Il reparto

(The Ward)

Regia di John Carpenter

con Amber Heard (Kristen), Danielle Panabaker (Sarah), Lyndsy Fonseca (Iris), Mamie Gummer (Emily), Jared Harris (Dottor Stringer), Mika Boorem (Alice), Leigh-Laura (Zoey), Sean Cook (Jimmy), Sali Sayler (Tammy), D. R. Anderson (Roy), Susanna Burney (Infermiera Lundt).

PAESE: USA 2011
GENERE: Horror
DURATA: 88′

1967. Una ragazza in stato di shock brucia una casa e viene gentilmente accompagnata in un manicomio, reparto femminile. Qui inizia a vedere una mostruosa creatura che sembra stia uccidendo una per una le ragazze della struttura. Le superstiti, coalizzate, tenteranno di fermarla, ma forse non tutto è come sembra.

Dopo dieci anni tondi di silenzio, interrotti soltanto nel 2005 e nel 2006 da due (scadenti) regie per la saga Masters of Horror, Carpenter torna con un horror claustrofobico che è pienamente nel suo stile per quanto riguarda la forma, un po’ meno nei contenuti. L’assenza dalle scene di questo sottovalutato autore americano non è dettata tanto da una crisi creativa, quanto da un rifiuto delle major di investire nei suoi progetti che spesso sono troppo audaci – ma non per questo mediocri – per attirare il grande pubblico. E così, basandosi su una sceneggiatura dei fratelli Rasmussen, Carpenter gira un horror controcorrente, almeno nella messa in scena, che ricorda le sue opere più importanti: al di là delle autocitazioni (l’introduzione con l’arrivo di Kristen all’ospedale psichiatrico è costruito su inquadrature identiche a quelle in cui Trent approda in un medesimo edificio ne Il seme della Follia), il regista dimostra di essere ancora il numero uno nell’utilizzo dello spazio del fotogramma panoramico, e impila una dietro l’altra una serie di funzionali inquadrature tipiche del suo cinema, fatte di spazi vuoti, statici, deserti, in cui non si vede la presenza dell’uomo e si ipotizza quella di imminenti mostri; la bella fotografia “anni ‘60” di Yaron Orbach non teme il buio e sfiora l’onirico (o l’incubo?), ma paradossalmente la novità del film è la sua regia “classica”: lontano dall’estetica dell’horror moderno (montaggio convulso da videoclip, personaggi idioti, strutture fumettistiche), il film è visivamente lineare e figurativamente essenziale, e per questo è facile leggerlo come uno spassionato omaggio al cinema horror di una volta, fatto con poco, senza orpelli e sangue a fiotti, ma terribilmente sconvolgente. È una pellicola poco “moderna” – se non in qualche effetto speciale che ricorda The Ring – e molto “vecchia”, intesa come artigianale, molto “retrò” nelle immagini e “vintage” nella narrazione. Il problema principale del film è forse nella trama: la tensione c’è, la paura anche, ma il film è tematicamente poco carpenteriano perché è privo d’ironia e freschezza nell’intreccio. La domanda, dunque, è la seguente: siamo sicuri che questa fosse una storia nelle corde di Carpenter? Probabilmente no, ma è anche vero che un regista vuole lavorare, nel bene e nel male, e vista la scarsità di richieste è giusto che anche Carpenter qualche volta inciampi in storie non sue. Qualche volta si perde un pò la verosimiglianza, ma è anche vero che il finale a sorpresa, pur essendo già visto e non innovativo, arriva davvero inaspettato. Resta un film con un buon ritmo ritmo e una vorticosa agilità – i tentativi di fuga di Kristen sono più numerosi di quelli di Nick Mano Fredda– ed è innegabile che i presupposti di critica sociale (le aberrazioni dei manicomi, il ruolo delle donne “malate”, l’ipocrisia dei luminari) centrino il bersaglio. Bellissimo il prologo prima dei titoli di testa e ottime le attrici protagoniste. Un Carpenter minore, certo, ma come sempre “onesto” e interessante.  Scarso successo di pubblico, anche perché da noi è arrivato in pochissime sale. Peccato.

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