Qualunquemente

Regia di Giulio Manfredonia

con Antonio Albanese (Cetto La Qualunque), Sergio Rubini (Jerry), Lorenza Indovina (Carmen), Nicola Rignanese (Pino), Davide Giordano (Melo), Luigi Maria Burruano (L’imprenditore), Alfonso Postiglione (il ragioniere), Veronica Da Silva (Cosa), Salvatore Cantalupo (De Santis), Asia Ndiaye (Bambina), Antonio Gerardi (Tenente Cavallaro), Massimo Cagnina (Geometra), Maurizio Comito (Comito).

PAESE: Italia 2011
GENERE: Grottesco Satirico
DURATA: 96′

Dopo quattro anni di latitanza in Sudamerica, dove si è costruito una nuova famiglia nonostante ne avesse una in Italia, torna al paese Cetto La Qualunque, affarista corrotto e in odor di mafia. Appurato che ci saranno le elezioni amministrative e che il candidato più forte, De Santis, incita al rispetto della legge, Cetto mette su in quattro e quattr’otto una lista di criminali e, imbrogliando, ovviamente, vince le elezioni e diventa sindaco.

Esordio cinematografico di una delle maschere più riuscite del comico palermitano naturalizzato lombardo Antonio Albanese, soggettista, sceneggiatore (con Piero Guerrera) e interprete della sua creatura. È un film comico- grottesco che si impegna a fondo per mettere alla berlina la classe politica e dirigente della nostra Italia immersa nella crisi (economica, ma anche di valori, di ideali). Manfredonia  è bravo a non cadere nel tipico tranello del comico che, approdando al cinema, impila alla rinfusa gag diverse del suo repertorio tenute insieme col fil di ferro: la storia c’è, e l’inserimento di qualche tormentone – “chiù pilu pe tutti!” – è abbastanza funzionale al racconto. Ma forse il personaggio non era adatto alla durata e alla trama tipiche del cinema, forse doveva restare solo protagonista di sketch televisivi o teatrali: lo si nota quando la sceneggiatura va troppo verso il realismo per mantenere una storia credibile o quando il macchiettismo e la caricatura prendono il sopravvento affondando nei luoghi comuni. E il finale con Rubini che fugge non ha molto senso, perlomeno è un pò troppo ambiguo. Albanese comunque mette dentro la sua creazione tutto e tutti (pensioni d’invalidità date agli sportivi, costruzioni abusive, corruzione, evasioni fiscali, ipocrisia) e qualche battuta è graffiante e colpisce il bersaglio. E nonostante la prima ora sia all’insegna di un non meglio identificato populismo (“tanto sono tutti uguali”), i trenta minuti finali svelano l’intento del comico e Cetto diventa un surrogato berlusconiano a 18 carati: parla di abolire l’Ici, attacca la magistratura che vuole sovvertire l’esito del voto democratico, si intrattiene in villa con prosperose puttanelle, inaugura il primo tronco del ponte sullo stretto e infine i mafiosi puntano a mandarlo al Quirinale. È un film volutamente sgradevole, come sgradevole è il suo protagonista: falso, corrotto, puttaniere, malavitoso, disonesto, volgare, irrispettoso. È impossibile non notarne i debiti con la saga di Fantozzi, specialmente nei rapporti col figlio Melo (scene di una tristezza terrificante) e nel cinismo pessimista senza speranza. Alcune sequenze sono a dir poco agghiaccianti nella loro vicinanza alla realtà – il dibattito televisivo, le visite di Cetto all’ospedale e all’ospizio – ma non sempre Albanese e Manfredonia sono equilibrati nella scelta dei registri: si passa dal comico al demenziale, dal satirico al grottesco puro, e non sempre con disinvoltura. Si ride parecchio, comunque, in questo anomalo film non del tutto riuscito ma che va visto: Cetto rappresenta tutto ciò che le persone civili non dovrebbero fare, anche se parte degli italiani, i politici specialmente, le stanno facendo da un pezzo. Porta all’esagerazione molti concetti, ma è più vicino alla realtà di quanto possa sembrare. Musiche in tema della Banda Osiris, fotografia di Roberto Forza che colora con toni fumettistici vestiti e paesaggi. La regia di Manfredonia non è niente di speciale, ma è intelligente nelle sequenze in cui mostra le meraviglie naturali del sud d’Italia in contrasto con la mostruosità dei personaggi che le abitano. Come dire: il nostro è un bellissimo Paese, smetteremo mai di distruggerlo per i soldi? Prodotto da Fandango e Domenico Procacci. È un film che “come film” si può criticare quanto si vuole, ma i messaggi arrivano alla pancia dello spettatore grazie ad un’iperbolica, cattivissima satira. Radicalmente pessimista, quasi terribile – un solo personaggio positivo, De Santis, che finisce male – ha comunque ottenuto un grande successo di pubblico, forse perché dinnanzi a questo genere di pellicole si pensa sempre “tanto non è davvero così, è solo un’esagerazione comica”. Sicuri?

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