L’uomo che fuggì dal futuro

(THX 1138)

Regia di George Lucas

con Robert Duvall (THX 1138), Donald Pleasence (SEN 5241), Don Pedro Colley (SRT), Maggie McOmie (LUH 3417), Ian Wolfe (PTO), Sid Haig (NCO), Marshall Efron (TWA), John Pearce (DWY), Irene Forrest (IMM), Claudette Bessing (ELC).

PAESE: USA 1971
GENERE: Fantascienza
DURATA: 86′ (88′)

XXV secolo. Gli esseri umani, identificati attraverso sigle e numeri, vivono nel sottosuolo e dedicano la loro intera esistenza al lavoro. I sentimenti sono banditi, tutti sono uniformati, anche a livello esteriore (sono tutti rasati a zero, uomini e donne, e vestiti eslcusivamente di bianco), e il potere è in mano alle macchine che controllano e puniscono i ribelli attraverso spietati robot poliziotti. Quando THX 1138 e LUH 3417 si lasciano andare all’amore (anche fisico), diventano automaticamente dei fuorilegge. Inizia la fuga.

Primo film di Lucas, ispirato al cortometraggio Electronic Labyrinth: THX 1138 che il regista realizzò nel 1967 come saggio conclusivo del proprio master universitario presso la University of Souther California. Echi orwelliani (non solo nella trama, ma anche nel diventare un inno all’umanità in un mondo disumano) si sposano con uno stile visivo davvero notevole, la cui coerenza formale è una delle carte vincenti del film. Alcuni ci lessero una parabola sul comunismo sovietico visto dagli occidentali (colpevole di uniformare i propri cittadini, di esercitare un controllo assoluto sulle loro vite, di bandire qualsiasi svago), ma a ben vedere sembra più una metafora del capitalismo, con gli esseri umani costretti a non far altro che lavorare e creare profitto. Non a caso, nel finale l’autorità smette di seguire il fuggiasco THX solo e soltanto perché l’operazione sta iniziando a costare troppo. Un pò verboso nella parte centrale, il film è riscattato da trovate visive particolarmente azzeccate, tra le quali la più audace (e affascinante, anche a livello simbolico) è quella della prigione dei reietti (tra i quali, oltre ai ribelli come THX, ci sono un nero, un nano, un disabile) immaginata come un’asettica stanza bianca che sembra non avere fine. Prodotto dalla American Zoetrope di Coppola e scritto dal regista con Walter Murch, che curò anche l’inquietante sound-design. Le musiche originali sono di Lalo Schifrin. Nel 2004 Lucas ne predispose una versione director’s cut della durata di 88′ (invece che 86′) nella quale, come già aveva fatto coi vecchi Star Wars, inserì diversi innesti digitali, a suo giudizio migliorativi: se è vero che alcuni ritocchi funzionano, come quelli che aumentano le comparse in alcune sequenze o “puliscono” certe imperfezioni, altri sono abbastanza imbarazzanti, come le creature scimmiesche inserite nel prefinale. Comunque un prodotto interessante. Alcune scene sono girate nel complesso del Marin County Civic Center di San Rafael (California) progettato da Frank Lloyd Wright.

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Strange Days

(Strange Days)

Regia di Kathryn Bigelow

con Ralph Fiennes (Lenny Nero), Angela Bassett (Mace), Juliette Lewis (Faith), Tom Sizemore (Max Peltier), Michael Wincott (Philo Gant), Vincent D’Onofrio (Burton Steckler), Glenn Plummer (Jericho One), Brigitte Bako (Iris), Richard Edson (Tick), Josef Sommer (Strickland), William Fichtner (Dwayne Engelman), Nicky Katt (Joey Corto), Michael Jace (Wade Beemer).

PAESE: USA 1995
GENERE: Fantascienza
DURATA: 145′

Los Angeles, 1999. Lenny Nero, ex poliziotto, è diventato uno spacciatore di clip per il filo-viaggio, ovvero un’esperienza sensoriale altrui registrata su disco per poter essere ri-vissuta da terzi. Mentre cerca di riconquistare l’amata Faith, che ora sta con un potente boss-manager della musica, entra in possesso di una clip in cui si vede l’omicidio di una prostituta e finisce per scoprirne un’altra in cui si vedono due poliziottacci uccidere un rapper nero. Che fare?

Da un’idea di James Cameron (ai tempi marito della regista), anche sceneggiatore con Jay Cocks, uno riuscito pastiche di noir, giallo e fantascienza distopica, in cui una poetica figlia degli anni ottanta (la metropoli degradata e in mano a caos e violenza, lo stato di polizia) incontra le suggestioni della multimedialità e della multisensorialità degli anni novanta, con la tecnologia racconta come vera la droga del nuovo millennio (e non c’erano ancora i social…). Ma nell’aria c’è anche l’affare Rodney King, e più in generale l’attitudine violenta dei poliziotti USA. Nella sua sottile ambivalenza è anche un film sull’importanza del vedere (e del documentare) per poter comprendere e, nel caso, denunciare, unica nota positiva della portabilità della tecnologia odierna. L’idea di un futuro caotico, fiumana di gente e musica a palla, è un pò superata, e nel finale scivola, almeno a livello narrativo, negli stereotipi (la battaglia col cattivo è eterna, quella con gli sbirri corrotti abbastanza convenzionale), ma resta uno dei film di fantascienza più interessanti degli anni novanta, anticipatore ma capace di dire ancora qualcosa di tremendamente attuale. Cupo, pessimista, ma non privo di speranza. Bigelow raggiunge la vetta del proprio stile realistico e sempre funzionale alla storia, anche nei virtuosismi (notevoli i lunghi piani sequenza in soggettiva, mediati dai videogame eppure quasi documentaristici), e riesce a pennellare con precisione un mondo vicinissimo a noi eppure già in disfacimento, soprattutto morale. In parte Fiennes capellone e sensualissima Bassett con pistola nella giarrettiera e vestitino di strass. Le canzoni cantate da Lewis, entrambe di PJ Harvey, sono eseguite dal vivo. Cameo degli Skunk Anansie. Ottima fotografia di Matthew F. Leonetti. L’idea di partenza (ma non il suo sviluppo) ricorda quella di un pregevole film del 1983, Brainstorm di Douglas Trumbull, con Christopher Walken e Natalie Wood.

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True Detective – Night Country

(True Detective: Night Country)

Regia di Issa López

con Jodie Foster (Elizabeth Danvers), Kali Reis (Evangeline Navarro), Fiona Shaw (Rose Aguineau), Finn Bennett (Peter Prior), Isabella Star LaBlanc (Leah Danvers), John Hawkes (Hank Prior), Christopher Eccleston (Ted Connelly), Anna Lambe (Kayla), Aka Niviâna (Julia Navarro), Joel D. Montgrand (Eddie Qavvik).

PAESE: USA 2024
GENERE: Thriller
DURATA: 5 episodi da 60′ circa + 1 episodio da 75′

Mentre inizia la stagione della notte artica, il paesino di Ennis, Alaska, è scosso dalla sparizione di un gruppo di scienziati di stanza in una stazione di ricerca poco fuori dell’abitato. A terra si rinviene la lingua mozzata di una donna che, secondo l’agente di origini Inupiat Angeline Navarro, appartiene a una giovane attivista assassinata sei anni prima. Ma il caso è affidato (per ora) al capo della polizia di Ennis, la scontrosa Liz Danvers, con la quale Navarro ha qualche conto in sospeso…

Quarta stagione della serie antologica HBO ideata da Nic Pizzolatto, la prima senza l’apporto diretto dello scrittore, che cede il testimone di showrunner a Issa López, anche regista di tutti e sei gli episodi. I fan della prima ora non hanno apprezzato gli spunti sovrannaturali, totalmente assenti nelle tre stagioni precedenti e forse debitori di un’altra serie, meno conosciuta, ambientata tra i ghiacci (si tratta di Fortitude, targata Sky Atlantic), ma a noi è parso che siano inseriti in maniera azzeccata, e che lo spirito misterioso e inquietante della serie sia assolutamente rispettato. C’è molta carne al fuoco, è sicuramente vero, e molti personaggi e dinamiche tra loro non sono esenti da stereotipi, ma sarebbe ingeneroso non apprezzare l’efficacia dell’ambientazione, la capacità di intrigare e creare una dignitosa suspense, la scelta di virare su personaggi femminili (qualcuno l’ha definita una serie decisamente girl power) e il discorso politico che si schiera dalla parte delle minoranze, qui rappresentate dalla popolazione Inupiat che troppo spesso ha ricevuto dall’uomo bianco un trattamento simile a quello che patirono gli indiani. Alcuni snodi narrativi sono un pò forzati, soprattutto nell’ultimo episodio, ma la serie prende parecchio, e alla fine il risultato è superiore alla media. Brave le due protagoniste, la ex pugile Reis e la sempreverde Foster, antipatica a 360°. La canzone della sigla è Bury A Friend di Billie Eilish.

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The Night Flyer

(The Night Flyer)

Regia di Mark Pavia

con Miguel Ferrer (Richard Dees), Julie Entwisle (Katherine Blair), Dan Monahan (Merton Morrison), Michael H. Moss (Dwight Renfield), John Bennes (Ezran Hannone), Beverly Skinner (Selida McCamon), Rob Wilds (Buck Kendall), Richard K. Olsen (Clarke Bowie), Elizabeth McCormick (Ellen Sarch).

PAESE: USA, Italia 1997
GENERE: Horror
DURATA: 94′

C’è un serial killer che sta facendo strage di innocenti nei piccoli aeroporti in cui atterra col suo Cessna nero. Sulle sue tracce si mette il giornalista Richard Dees, cinico e disposto a tutto per ottenere lo scoop. Troverà pane per i suoi denti.

Da un racconto di Stephen King, adattato dal regista con Jack O’Donnell. Sono più temibili i vampiri veri e propri o i vampiri dell’informazione? Sia gli uni che gli altri si nutrono di sangue, sono disposti a tutto per sopravvivere e non hanno alcun rispetto per i vivi né tanto meno per i morti. Un horror riuscito e ghiottamente politico, lontano dalle rotte del genere, girato molto bene e con un finale potentissimo e privo di qualsiasi catarsi. Ritmo, suspense, gore, riflessioni profonde. C’è da chiedere altro? Ottimo Ferrer, nei panni di un personaggio antipatico e irredento al quale lo spettatore non può appigliarsi. L’ottima fotografia è di David Connell, le funzionali musiche sono di Brian Keane. Il personaggio di Richard Dees era già apparso fugacemente nel romanzo di King La zona morta (1979). In Italia conosciuto anche con il titolo Il volatore notturno. 

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Agente Lemmy Caution: missione Alphaville

(Alphaville, un étrange aventure de Lemmy Caution)

Regia di Jean-Luc Godard

con Eddie Constantine (Lemmy Caution), Anna Karina (Natacha von Braun), Akim Tamiroff (Henry Dickson), Howard Vernon (professor Nosferatu/von Braun), László Szabó (ingegnere capo), Christa Lang (la seduttrice).

PAESE: Francia, Italia 1965
GENERE: Fantascienza
DURATA: 99′

L’agente segreto Lemmy Caution arriva ad Alphaville, capitale di un’altra galassia, in cui tutto è controllato dal supercomputer Alpha 60 che bandisce comportamenti illogici ed emozioni. Si accorgerà presto che Alpha 60 sta preparando una guerra contro i pianeti esterni…

L’agente Lemmy Caution, partorito dalla penna dello scrittore Peter Cheyney e già protagonista di sette film tra il 1953 e il 1963 (sempre interpretato dal roccioso Constantine), incontra i precetti della nouvelle vague e sbarca per la prima volta in un contesto fantascientifico/distopico. Il risultato è un noir decisamente atipico, che vale soprattutto per l’ambientazione: Godard, convinto che la città del futuro sia già contenuta nella Parigi dei suoi tempi, gira nella capitale francese soffermandosi sugli edifici (e gli interni) modernisti che possano richiamare una visione futurista, lavorando sulle luci e sui suoni come mai aveva fatto prima (fotografia di Raoul Cotard, musiche di Paul Misraki). Ispirandosi soprattutto all’Orwell di 1984, il regista immagina un mondo futuro in cui sono illegali i comportamenti illogici (dunque anche l’arte e le emozioni) per riflettere su un presente sempre più disumano e insensibile, ma il film ha molte pecche strutturali che lo rendono sgraziato e talvolta confuso. Non mancano sequenze di grande impatto (la più celebre è sicuramente quella delle esecuzioni degli oppositori del regime in una piscina olimpionica), ma la frantumazione continua e programmatica della narrazione finisce per appesantire la visione e azzerare il coinvolgimento. Moltissime citazioni colte nei dialoghi, da Céline a Shakespeare, da Borges a Nietzsche. Godard e Karina si erano separati da poco, ed è un trauma che sembra riversarsi anche in alcune sequenze del film (come il finale). Orso d’oro a Berlino.

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La decima vittima

Regia di Elio Petri

con Marcello Mastroianni (Marcello Poletti), Ursula Andress (Caroline Meredith), Elsa Martinelli (Olga), Massimo Serato (l’avvocato Rossi), Salvo Randone (il professore), Luce Bonifassy (Lidia Poletti), Milo Quesada (Rudi), Walter Williams (Martin), Richard Armstrong (Cole), George Wang (il cacciatore cinese), Evi Rigano (la prima vittima), Jacques Herlin (gestore del club).

PAESE: Italia, Francia 1965
GENERE: Fantascienza
DURATA: 90′

Nel futuro prossimo i governanti hanno istituito un gioco mortale chiamato la Grande Caccia, nel quale i concorrenti, suddivisi tra cacciatori e prede, hanno licenza di uccidersi a vicenda. In questo modo, potendo ogni individuo sfogare la propria rabbia e la propria sete di violenza in maniera legale, i reati al di fuori del giuoco sono praticamente estinti.  Quando però l’ultimo cacciatore e l’ultima preda (rispettivamente l’americana Caroline e l’italiano Marcello) si innamorano, il meccanismo pare incepparsi.

Dal romanzo La settima vittima (1953) di Robert Sheckley, adattato dal regista con Tonino Guerra, Giorgio Salvioni e Ennio Flaiano, un film per certi versi unico all’interno del panorama cinematografico italiano di quegli anni (e non solo), riuscita miscela di satira e fantascienza distopica che riflette sull’importanza del medium televisivo e dello spettacolo in generale (meglio se violento) come strumento di controllo delle masse. In un mondo in cui la vita umana sembra non avere più alcun valore, se non quello prettamente economico, l’individuo è diventato un bene di consumo interscambiabile, sostituibile come qualsiasi merce. Gustosi costumi e scenografie POP e surrealiste (si scorgono diversi quadri dell’artista Alberto Biasi, ma il film è pieno d’arte moderna), e bei duetti tra la Andress, con addosso quasi sempre soltanto una tutina rosa shocking portata senza biancheria intima (del resto produce Carlo Ponti), e un inedito Mastroianni scalzo e ossigenato. Bene anche le figure di contorno, tra le quali spicca l’invalido professore di Randone che pare la parodia di von Stroheim ne La grande illusionePeccato per gli ultimi 20′, in cui la satira lascia il posto a una farsa grossolana, e per un lieto fine francamente indigesto, imposto dalla produzione. Contributi tecnici d’alta classe: fotografia di Gianni Di Venanzo, montaggio di Ruggero Mastroianni, musiche di Piero Piccioni. Sui titoli di coda canta Mina.

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Il villaggio di cartone

Regia di Ermanno Olmi

con Michael Lonsdale (il prete), Rutger Hauer (il sacrestano), Massimo De Francovich (il medico), Alessandro Haber (il graduato), Souleymane Sow (l’avverso), Fatima Romina Ali (la ragazza estremista), Dawit Ghebreab (il ragazzo intellettuale), Ibrahima Faye El Hadji (il soccorritore), Irma Pino Viney (Magdha).

PAESE: Italia 2011
GENERE: Drammatico
DURATA: 84′

Una chiesa viene dismessa alla presenza del vecchio parroco. Mentre fuori s’odono costantemente bombe, minacciosi elicotteri e sirene, un gruppo di immigrati irregolari s’intrufola per cercare riparo. Il prete li protegge, ma la delazione del sacrestano e le continue intromissioni di un vigilante li spingeranno a fuggire.

Quattro anni dopo aver dichiarato che Centochiodi (2007) sarebbe stato il suo ultimo film di fiction, Olmi torna sui suoi passi portando in scena una storia scritta in collaborazione con Claudio Magris e monsignor Gianfranco Ravasi. La metafora è chiara, necessaria: scordati i valori cristiani sui quali fu edificata, in primis quello dell’accoglienza, la chiesa rivive soltanto tendendo la mano verso gli ultimi per eccellenza di questi oscuri tempi nostri, ovvero i migranti. Persa nei suoi riti, sembra aver perso di vista la propria utilità, il proprio ruolo di aiuto pratico, come sottolinea la straordinaria sequenza in cui i migranti spostano l’acquasantiera (emblema del rito) per raccogliere la pioggia che cade da un buco nel tetto (l’aiuto reale, pratico, che migliora l’esistenza di chi vi ricorre). Con uno stile essenziale, lontano dagli stereotipi del cinema odierno, Olmi ha fatto uno film sussurrato e sincero, ambientato in un mondo in guerra che non ci viene mostrato (gli unici spazi che vediamo sono la chiesa e l’adiacente abitazione del parroco) ma del quale sentiamo in continuazione rumori per niente rassicuranti (temporali, bombe, elicotteri, sirene), evidentemente ipotetico (fantascientifico?) eppure perfettamente in linea con questa attualità crudele e colma di conflitti. Il racconto non è propriamente un racconto leggero o scorrevole, e alcuni personaggi potevano essere approfonditi meglio, ma il messaggio arriva potente. L’illuminazione di stampo teatrale (curata da Fabio Olmi, figlio del regista) può piacere o non piacere, ma rende bene l’idea di assistere ad una serie di «quadri» tipici di questi tempi nostri. Girato dentro il palazzetto dello sport di Bari, nel quale sono state ricostruite le due scenografie. Dedicato a Suso (Cecchi D’Amico) e Tullio (Pinelli). “Se non apriamo le nostre case, compresa la casa più intima, che è il nostro animo, siamo solo uomini di cartone” (Ermanno Olmi).

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Gli invasori spaziali

(Invaders from Mars)

Regia di William Cameron Menzies

con Jimmy Hunt (David Maclean), Helena Carter (dottoressa Blake), Arthur Franz (dottor Kelston), Leif Erickson (George Maclean), Hillary Brooke (Mary Maclean), Morris Ankrum (colonnello Fielding), Janine Perreau (Kathy Wilson), Max Wagner (sergente Rinaldi), Walter Sande (sergente Mack Finlay), Robert Shayne (dottor Wilson), Bert Freed (capo della polizia).

PAESE: USA
GENERE: Fantascienza
DURATA: 78′ (82′ nella versione per il mercato inglese)

Il piccolo David, appassionato di astronomia, vede un disco volante atterrare a pochi passi da casa sua. Quando i marziani rapiscono i suoi genitori trasformandoli in schiavi si rivolge alla polizia, ma viene creduto soltanto da una giovane infermiera e da un brillante scienziato che decide di allertare l’esercito…

Ultimo film di Menzies, che alternò l’attività di scenografo (per la quale vinse un Oscar nel 1929, alla prima edizione dei premi) a quella di regista (suo il notevole La vita futura, del 1936). La differenza rispetto ai film di fantascienza del periodo sta nel punto di vista, quello di un bambino innamorato delle stelle che, inizialmente, non viene preso sul serio dagli adulti ottusi. Girato con un budget abbastanza ridotto ma in 3D e a colori, ha una prima parte riuscita e particolarmente inquietante, una parte centrale un po’ verbosa e fin troppo incentrata sull’intervento dei militari e un finale all’altezza. La grande abilità di Menzies come scenografo viene fuori nelle scene ambientate alla stazione di polizia, in cui la povertà delle scenografie è utilizzata per dare all’avventura di Billy un tono ancora più inquietante e fiabesco (soffitti altissimi, corridoi angusti, nessun gingillo alle pareti). Ottima fotografia di John F. Seitz, abituale collaboratore di Billy Wilder, e particolarmente disturbante il sound design curato da Raoul Kraushaar. Scritto da John Tucker Battle e Richard Blake. Decisamente iconico l’aspetto del “capo” degli alieni: una testa con un grande cervello e svariati tentacoli. Rifatto nel 1986 con la regia di Tobe Hooper.

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La guerra dei mondi (1953)

(War of the Worlds¹)

Regia di Byron Haskin

con Gene Barry (dottor Clayton Forrester), Ann Robinson (Sylvia Van Buren), Les Tremayne (generale Mann), Robert Cornthwaite (dottor Pryor), Lewis Martin (pastore Collins), Sandro Giglio (dottor Bilderbeck), Ann Codee (dottoressa Duprey), Vernon Rich (colonnello Heffner), Walter Sande (sceriffo Bogany).

PAESE: USA 1953
GENERE: Fantascienza
DURATA: 85′

Partendo dalla California meridionale, implacabili marziani invadono la Terra. Sostenuto dall’esercito, uno scienziato studia una soluzione. Ma alla fine l’unica è affidarsi a Dio, che infatti annienta gli invasori coi batteri terrestri.

Dal romanzo (1897) di H. G. Wells, adattato da Barré Lyndon, uno dei più celebri film di fantascienza degli anni cinquanta, prodotto da George Pal per Paramount con un budget piuttosto ingente. Gli effetti speciali sono notevoli e non mancano le sequenze riuscite (l’incursione del serpentino occhio elettronico alieno nella fattoria diroccata, la fuga finale attraverso la città deserta), ma il film è viziato da un sottotesto religioso esagerato e a tratti imbarazzante (totalmente assente nel romanzo, nel quale anzi Wells era piuttosto critico rispetto a come le istituzioni religiose affrontavano l’invasione), amplificato da dialoghi di rara bruttezza e da una voce narrante (di sir Cedric Hardwicke) che pare quella di un film sulla Bibbia. Peccato, perchè Haskin era sicuramente un abile coordinatore di effetti speciali, e la fotografia in Technicolor di George Barnes, che gioca coi colori primari per restituire un clima allucinato, era particolarmente curata. A livello iconografico, interessante l’aspetto degli alieni e quello delle loro navi da guerra a forma di manta. Oscar per gli effetti speciali. Rifatto da Spielberg nel 2005.

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Povere creature!

(Poor Things!)

Regia di Yorgos Lanthimos

con Emma Stone (Bella Baxter), Mark Ruffalo (Duncan Wedderburn), Willem Dafoe (dottor Godwin Baxter), Ramy Youssef (Max McCandles), Christopher Abbott (Alfie Blessington), Kathryn Hunter (Madame Swiney), Jerrod Carmichael (Harry Astley), Hanna Schygulla (Martha von Kurtzroc), Suzy Bemba (Toinette), Margaret Qualley (Felicity).

PAESE: USA, Regno Unito, Irlanda 2023
GENERE: Grottesco
DURATA: 141′

In una Londra vittoriana steampunk, il dottor Godwin Baxter trapianta nella scatola cranica di una giovane suicida il cervello del bambino ch’ella portava in grembo al momento dell’insano gesto. Dopo qualche mese, desiderosa di scoprire il mondo, Bella parte per girare il mondo con un imbelle playboy. Attraverso il sesso nelle sue molte forme imparerà a conoscere soprattutto se stessa…

Dal romanzo omonimo (1992) dello scozzese Alasdair Gray (1934-2019), adattato da Tony McNamara, un anomalo, sfrontato, caleidoscopico racconto di formazione in cui il greco Lanthimos, profeta di un cinema estremo e disturbante, riflette sulla figura femminile evidenziando quanto, ieri (pur in un ieri fittizio) come oggi, sia vittima di un mondo sempre e da sempre al maschile che tende ad inibirla e a soffocarne la libertà, spesso attraverso la limitazione sessuale perché è grazie all’esperienza del piacere senza obblighi procreativi che la donna si avvicina all’uomo e ne mina il millenario potere. Con uno stile sbarazzino che utilizza in maniera molto personale lo zoom, le lenti distorte (come il celebre fisheye) e un formato piuttosto anomalo (1,66:1), Lanthimos si serve dell’impudica ingenuità della sua protagonista (una memorabile Stone) per riflettere sull’ipocrisia di quasi tutte le società umane occidentali, per le quali la donna non deve rimanere altro che l’immagine del piacere sessuale maschile sacrificando il proprio. Il messaggio arriva forte e chiaro, e il film è senza ombra di dubbio divertente (specie nei dialoghi), visivamente appagante, impregnato di una volgarità così iperbolica e sfacciata da diventare innocua. Eppure secondo noi, non del tutto riuscito.

Nel raccontare il sesso come strumento di libertà, Lanthimos si lascia prendere la mano e gira un’opera troppo «sesso-centrica», in cui sembra che la copula selvaggia sia l’unica arma che la donna possiede per raggiungere l’emancipazione, banalizzando un discorso ben più ampio e finendo col costruire l’intreccio su quegli stessi stereotipi sessuali che vorrebbe denunciare. Insomma, come spesso accade nei film del regista greco, un’ottima idea di partenza si scontra con la volontà nemmeno così velata di andare sempre e comunque a parare sulle stesse cose, sfilacciandosi irrimediabilmente nell’accumulo fine a se stesso e diventando anche un poco prolisso. Degustibus, e infatti i fan del regista (e non solo loro) hanno apprezzato, ma parlare di capolavoro forse è un po’ esagerato. In ogni caso grandi prove della Stone (straordinaria, doppiata alla perfezione da Domitilla D’Amico) e di uno sfregiatissimo Defoe, alle prese con due personaggi dall’esplicito sapore frankensteinianoSubito dopo di loro il sempreverde Ruffalo, alle prese col personaggio più sgradevole e stupido della sua carriera. Ottima fotografia di Robbie Ryan e belle scenografie di Shona Heath e James Price, anche se la CG è ormai imperante anche qui. In Italia distribuito da Walt Disney (!). Leone d’oro a Venezia e ben 11 candidature ai premi Oscar, con 4 vittorie: attrice protagonista, scenografia, costumi, trucco/acconciatura.

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