Lo sguardo esterno #1 – L’uomo d’acciaio

Locandina

(Man of Steel)

Regia di Zack Snyder

Era il luglio del 2006, quando sfrecciò nelle sale d’Oltreoceano il tanto (forse troppo) criticato Superman Returns di Bryan Singer. Incasso sotto le aspettative, critiche per la scelta degli attori e per la storia, tutto lasciava presagire la fine cinematografica dell’Ultima Figlio di Krypton. Ma, come si sa, gli Eroi risorgono dalle proprie ceneri e la Warner, fresca del successo del Cavaliere Oscuro nolaniano, decide di rilanciare il franchise del mantello rosso affidandolo proprio a colui che ha cambiato il modo di vedere i Cinecomics: Christopher Nolan.

Proprio da questa scelta si può partire per discutere de L’Uomo d’Acciaio.

Lanciato con un battage pubblicitario mastodontico iniziato quasi due anni fa in modo virale su Internet, la pellicola si è posta fin da subito come una totale revisione del super-eroe. “Dimenticate Christopher Reeve con le mutande rosse sopra la calzamaglia”: questo è quello che si presagiva dai trailer; e in effetti le aspettative sono state accontentate.

Non è un film semplice con cui approcciarsi (forse per questo la critica è divisa); da un lato abbiamo la visione barocca, estetica e ridondante del regista Zack Snyder (300, Watchmen) e dall’altra una particolare attenzione alla storia e alle tematiche da affrontare di Nolan (qui in veste di produttore). Ma andiamo con ordine.

L’intro ci darà la linea madre dell’intera pellicola: action, tensiva, drammatica. La nascita dell’Eroe e la sua salvezza dalla distruzione di Krypton, la lotta tra Jor-El (un eccellente Russell Crowe) e il Generale Zod (Michael Shannon) sono tutti ripresi in maniera documentaristica e con camera a spalla, tecnica che sarà usata per un buon 90% della pellicola, per dare il maggior realismo possibile. I movimenti sconnessi, nervosi saranno usati anche per le scene più “tranquille”. Molto curiosa la scelta di Snyder di girare quasi un intero kolossal in pellicola e spallaccio (l’effetto è sorprendente).

Dopo il rocambolesco inizio, abbiamo lo sviluppo vero e proprio del personaggio Kal-El/Clark Kent e qui il film si dipana su diversi piani temporali. Le vicende al tempo corrente, in cui abbiamo un Clark vagabondo che si trova per caso a salvare il prossimo, sono inframezzate da flash-back sull’infanzia e adolescenza dell’ Eroe (due davvero commoventi, se si ha un cuore) impegnato nella scoperta delle sue capacità e sull’impossibilità di poterle mostrare al mondo. E su questa argomentazione si snoda il personaggio del padre adottivo di Clark, Jonathan Kent (un redivivo Kevin Costner), uomo semplice ma dalla grande sensibilità. “Devi scegliere che uomo vuoi essere da adulto. Chiunque sarà, è destinato a cambiare il Mondo”, dice Jonathan ad un pubescente e confuso Clark; la predestinazione, la responsabilità sono il dono/maledizione di chi ha grandi capacità (Spiderman di Raimi insegna), si deve solo attendere il tempo giusto per usarle, e Clark scopre il suo destino di traghettatore dell’Umanità verso la luce, di Speranza, in età matura (33 anni, metafora cristologica evidente). Il primo volo dell’Eroe, a livello visivo, è da mozzare il fiato, come anche il resto degli effetti speciali creati dalla Weta Digital (che ha creato gli effetti di Avatar e del Signore degli Anelli, per intenderci). La prima parte della pellicola si conclude con la trasformazione di Clark in Sup… ops, nell’Uomo d’Acciaio (non chiamiamolo come sappiamo volutamente) e da qui inizia il segmento prettamente action e, soprattutto, fantascientifico.

Come per la trilogia del Cavaliere Oscuro, la figura dell’Eroe diventa un pretesto per raccontare altre storie; nel caso de L’Uomo d’Acciaio, la presenza di un essere dotato di super-poteri e della sua nemesi, Zod, che ha “viaggiato per un oceano di Stelle” al fine di trovarlo e vendicarsi della rivalità che aveva con Jor-El serve a mettere in scena un classico film di fantascienza (“You Are Not Alone”, il messaggio minatorio di Zod). Alieni cattivi, invasori che minacciano la nostra esistenza, tutto contornato da battaglie aeree, una Metropolis ridotta in macerie e un salvataggio del Pianeta in extremis a prezzo molto caro per l’Eroe (chi conosce il personaggio, vedrà che, nel finale, sarà costretto a venire meno ai suoi valori dominanti per salvarci).

Dopo questa breve descrizione si può dire che Man Of Steel è una pellicola pienamente riuscita. Non è perfetta, ma assolutamente superiore alla media del blockbuster hollywoodiano attuale. L’azione è saggiamente compensata da momenti più intimisti e, a tratti, si ha davvero voglia di “spiccare il volo”. Grande merito di questo va al lavoro sonoro e di score dell’ormai inesauribile Hans Zimmer, che raccoglieva l’ingombrante testimone musicale di John Williams: i suoi bassi e le sue percussioni (marchio di fabbrica del compositore tedesco) non dettano solo il ritmo delle diverse inquadrature ma anche quello cardiaco dello spettatore (il sincopato e il crescendo della traccia “What are you going to do when you are not saving the World” sull’ultimissima sequenza è da brividi) e l’integrazione di musica e suono diegetico è, come al solito, eccelsa.

Che altro dire, l’ultimo superstite di Krypton ha sempre rappresentato il desiderio atavico dell’Uomo di poter superare i propri limiti, di poter essere qualcosa di Oltre, di poter volare. Beh, in fondo, con un paio di occhiali e una S sul petto sotto la camicia, chi non si sentirebbe un po’ S…..uper.

VOTO: 4 su 5

Matteo Merlano

Questa voce è stata pubblicata in 2000 - oggi, Lo sguardo esterno e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *