Regia di Mabrouk El Mechri
con Jean-Claude Van Damme (Jean-Claude Van Damme), François Damiens (commissario Christian Bruges), Zinedine Soualem (il rapinatore coi capelli lunghi), Karim Belkhadra (il vigile), Jean-François Wolff (il rapinatore robusto), Anne Paulicevich (la cassiera), Liliane Becker (la signora Van Varenberg), François Beukelaers (il signor Van Varenberg), Norbert Rutili (Perthier).
PAESE: Belgio, Francia, Lussemburgo 2008
GENERE: Drammatico
DURATA: 97’
L’attore Jean-Claude Van Damme sta vivendo un momentaccio: è senza soldi, un tribunale gli ha negato l’affidamento della figlia e Steven Seagal gli ha soffiato un film. Coinvolto in una rapina mentre è nell’ufficio postale del natio paese belga di Schaerbeek, è costretto dai malviventi a fingere di essere uno di loro.
Il canovaccio non è nuovo, e non è nuova nemmeno la costruzione narrativa a flashback che illustra uno stesso fatto da più punti di vista – i modelli illustri sono, rispettivamente, Quel pomeriggio di un giorno da cani e Rapina a mano armata – ma la sceneggiatura del regista con Frédéric Benudis va al di là dei generi (e degli stereotipi) per tracciare un autoritratto irriverente e autoironico su uno degli attori più noti e discussi del panorama action americano. “Una star del cinema d’azione scopre che la realtà è molto diversa dai film che è solito girare” (Mereghetti). Van Damme, anche produttore, si cala nei panni di se stesso con coraggio e verità, accettando di interpretare un divo sul viale del tramonto che per la prima volta si rivela nelle sue debolezze e nei suoi lati oscuri. Il confine tra attore e personaggio è letteralmente abbattuto. La prima parte, in cui Van Damme ironizza su se stesso, è divertente e scanzonata; la seconda, in cui la fiction prende il sopravvento e la storia si avvia verso un poco lieto finale, rivela un retroterra tragico che non ci si aspetta.
In mezzo, a separare i due diversi registri, c’è un monologo mozzafiato (interamente improvvisato e privo di stacchi) in cui il body builder americano si confessa, spiega i suoi errori, racconta le motivazioni che l’hanno spinto a girare un film come questo. Piange, si arrabbia, chiede perdono. Furbo? Forse, ma non stupido o insincero. Anzi. È un film intelligente, e intelligente è il suo attore protagonista: decostruisce con coraggio la sua immagine di duro, rivelando una consapevolezza che manca ai colleghi illustri (Seagal, Lundgren, Norris), colpevoli di prendersi ancora anacronisticamente, terribilmente sul serio. Il divo di origini belghe si interroga sul ruolo che gli spaccaossa come lui possono avere, oggi, all’interno dell’industria cinematografica, e lo fa rivelando un talento d’attore (comico, ma soprattutto drammatico) troppo spesso tenuto nascosto. In tutto il film darà a malapena due pugni, ma parla come non aveva mai fatto davanti ad una macchina da presa.
Il regista è molto abile nel riprenderlo come “oggetto primario della discussione”: spesso lo lascia parlare senza mostrare chi è il suo interlocutore (cioè senza controcampo), come se volesse sottolineare che si tratta di una confessione. Probabilmente, prima verso se stesso che verso gli spettatori. Regia intelligente e originale: si veda la già citata sequenza del monologo (con Van Damme che, per recitarlo, “esce” letteralmente dal set del film), o il mirabolante piano sequenza iniziale che, al ritmo di Hard Times di Curtis Mayfield, riassume in quattro minuti tutto il cinema dell’attore. Ma il film è colmo di trovate originali, come ad esempio il bellissimo passo in cui JCVD sogna di uscire dall’ufficio postale come un eroe o il doloroso e sorprendente finale, davvero inaspettato. Bellissime e azzeccate le musiche arrangiate da Gast Waltzing, coerente e fascinosa la fotografia grigiastra e granulosa di Pierre-Yves Bastard. Probabilmente è il miglior film di Van Damme. I fan dell’attore sono rimasti delusi (non rompe nemmeno un braccio!), ma tutti gli altri hanno apprezzato. Peccato che da noi non sia uscito al cinema e sia arrivato direttamente in Dvd.