Dogman

Regia di Matteo Garrone

con Marcello Fonte (Marcello), Edoardo Pesce (Simone), Alida Baldari Calabria (Alida), Adamo Dionisi (Franco), Francesco Acquaroli (Francesco), Nunzia Schiano (madre di Simone), Gianluca Gobbi (commerciante), Aniello Arena (commissario).

PAESE: Italia, Francia 2018
GENERE: Drammatico
DURATA: 102′

Periferia romana, giorni nostri. Il mite Marcello gestisce un negozio di toelettatura per cani e per arrotondare spaccia cocaina. Incapace di prendere le distanze da Simone, un vecchio amico tossicodipendente e violento, si fa coinvolgere in un colpo e finisce in carcere. Quando esce cerca Simone per avere la sua parte, ma l’ex amico lo rifiuta. Marcello si arrabbia, dando il via ad una spirale di violenza che scuoterà (forse) l’intero quartiere…

Il soggetto dei giovani fratelli D’Innocenzo (già autori del pregevole e per certi versi similare La terra dell’abbastanza), adattato da Garrone con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, prende ispirazione da una vicenda di cronaca del 1988 conosciuta come il delitto del canaro della Miagliana, ovvero l’omicidio del pugile dilettante Giancarlo Ricci ad opera del toelettatore per cani Pietro De Negri. Ma il film è qualcosa di più di una semplice ricostruzione storica, peraltro piuttosto libera. Nelle mani di Garrone, questa ennesima vicenda di ordinario squallore nostrano diventa una relazione clinica sulla società italiana di oggi, ben rappresentata dalle degradate periferie romane in cui cane mangia cane e ognuno è abbandonato tragicamente a sé stesso. Insomma, il Pasolini di Accattone e Mamma Roma non è poi così lontano. Garrone, coadiuvato dalle musiche in stile Vangelis di Michele Braga e dalla fenomenale fotografia di Nicolaj Bruel, opta per un’atmosfera rarefatta e quasi onirica che ben racconta lo spaesamento sociale (ed esistenziale) dell’Italia di oggi, e alterna momenti di grande tenerezza (il salvataggio del cane congelato, le parentesi con la figlia, il ritorno a casa dopo il carcere) ad esplosioni di inaudita violenza che riportano la narrazione alla tragicità di questo periodo storico di violenze futili (soprattutto verso i deboli) e colpevole indifferenza.

Il piano-sequenza, come succedeva nel neorealismo, diventa l’unico mezzo possibile per dare verità agli eventi e per raccontarli senza artifici nel loro folle divenire. Chi accusa il film di non avere una contestualizzazione storica ben definita dovrebbe soffermarsi maggiormente sulle scene ambientate nella Sala Slot di Francesco e sul loro profondo, tragico significato. Come sempre più raramente accade nel cinema italiano di oggi, questo Dogman è un film imprescindibile dal suo protagonista, una sorta di miscuglio tragicomico tra Chaplin e Keaton che cerca di ribadire disperatamente la propria esistenza senza mai riuscirci, nemmeno attraverso l’atto violento che chiude il film. Una mente semplice che non ha nulla a che vedere con le grandi menti criminali del vicino (almeno spazialmente) Romanzo criminale e che ha trovato in Fonte un’interprete perfetto, sommesso e sconfitto anche nel muoversi, nel parlare, nel rapportarsi con gli altri. Otto Nastri d’Argento e nove David di Donatello. Lascia dentro una diffusa sensazione di malessere, ma è un film imperdibile.

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