C’era una volta a… Hollywood

(Once Upon a Time in… Hollywood)

Regia di Quentin Tarantino

con Leonardo DiCaprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Emile Hirsch (Jay Sebring), Margaret Qualley (Pussycat), Timothy Oliphant (James Stacy), Julia Butters (Trudi Fraser), Bruce Dern (George Spahn), Kurt Russell (Randy), Zoe Bell (Janet), Al Pacino (Marvin Schwarzs), Austin Butler (Tex), Damian Lewis (Steve McQueen), Luke Perry (Wayne Maunder), Dakota Fanning (Squeaky), Mike Moh (Bruce Lee), Maya Hawke (Linda Kasabian), Rafal Zawierucha (Roman Polanski).

PAESE: USA, Gran Bretagna 2019
GENERE: Commedia
DURATA: 161′

Hollywood, 1969. Dopo essere diventato famoso con una serie televisiva western prodotta alla fine degli anni cinquanta, l’attore Rick Dalton – vicino di casa di Sharon Tate e del marito Roman Polanski – tenta la carriera cinematografica, ma entra in crisi perchè gli propongono soltanto brutte parti o progetti che non gli interessano (come alcuni spaghetti western prodotti in Italia). Intanto, il suo migliore amico e controfigura Cliff Booth conosce una ragazza hippy che lo porta nella misteriosa comune gestita dall’inquietante Charles Manson

Nono film di Tarantino, che mette insieme il protagonista del sesto (Pitt da Bastardi senza gloria) e il villain del settimo (DiCaprio da Django Unchained), per la prima volta nella stessa pellicola. Per raccontarne l’efficacia basterebbe dire che la prima ora e mezza è una delle cose più divertenti e originali degli ultimi anni. Da sempre incline all’ironia, Tarantino svolta qui verso la commedia “pura”: fuoco di gag esplosive, (straordinari) dialoghi incalzanti da screwball comedy, una capacità unica di esaltare i tempi comici degli attori. Poi, giocando con le nostre aspettative, vira sul thriller (suspense davvero notevole) e, infine, torna al black humor che lo ha reso chi è. La novità più grande è però un’altra, più concettuale: Q. scopre un elemento che il suo cinema non aveva, o che comunque aveva in parte, ovvero quello della pietas. Lo si vede nel disegno dei personaggi (nessuno è davvero cattivo, nessuno – o quasi – è solo “carne tarantiniana da macello” come nei film precedenti), nella natura del rapporto tra i due protagonisti, nell’incontro (sublime) tra Rick e l’attrice bambina, nel finale in cui anche gli attori sfigati scoprono che c’è ancora qualcuno che li considera qualcuno. In Bastardi senza gloria Tarantino cambiava la Storia, qui ci porta a un passo da essa e poi, poco prima di arrivare al dunque, prende una strada diversa: la sua. Così facendo evita dilemmi etici, ripropone la propria morale (se i suoi personaggi esistessero o fossero esistiti, il mondo sarebbe un posto migliore) e filma qualcosa di assolutamente originale, godibile ed imprevedibile (anche il consueto massacro finale non è come ce lo si aspetta per tutto il film).

Meno citazioni gratuite di questo o quel film, molte autocitazioni (il personaggio di Pitt è stato in guerra come Aldo Raine di Bastardi senza gloria, gli assassini salgono a Cielo Drive inquadrati come la squadra della morte di Kill Bill, Russell era lui stesso un ex stunt-man in Grindhouse) e uno sguardo lucidamente cinico sui pro e sui contro del successo. Molte scene da antologia: lo scontro tra Cliff e Bruce Lee (in un flashback geniale che inizia e finisce in modo geniale), l’incontro con la bambina, la folle resa dei conti finale con un mexican stand-off decisamente inedito. L’uso della musica in coppia col montaggio, i colori pop della Hollywood anni sessanta (fotografia di Robert Richardson), la coralità del racconto sono elementi che rivelano quanto Tarantino sia “figlio” anche di Scorsese. Non a caso, nella sua top-ten cinematografica figura anche Taxi Driver. Ogni viaggio in auto (e ce ne sono svariati) è accompagnato da una grande canzone, a comporre una colonna sonora straordinaria che annovera, tra gli altri, Paul Revere & the Raiders, Deep Purple, Simon & Garfunkel, Neil Diamond, José Feliciano. L’amore di Tarantino per i b-movie italiani (soprattutto western e polizieschi) viene fuori nella parentesi romana. Pitt e DiCaprio magnifici alle prese con due personaggi scritti benissimo e doppiati alla perfezione dalle loro voci abituali, Sandro Acerbo e Francesco Pezzulli. Ultimo film di L. Perry, mancato a causa di un ictus poco dopo il termine delle riprese. In piccole parti si scorgono Scoot McNairy, Clifton Collins Jr., Clu Gulagher e l’immancabile Michael Madsen.

Prima ancora che fosse girato sono arrivate da più voci polemiche in merito alla scelta di raccontare tarantinamente fatti realmente accaduti, tragici e ancora molto sentiti (la Tate fu seviziata e uccisa mentre era all’ottavo mese di gravidanza), polemiche assolutamente sterili perchè 1) il film non è affatto irrispettoso, anzi (non possiamo dire di più, rischieremmo il linciaggio per spoiler); 2) la scena in cui la Tate vede sé stessa al cinema è uno degli omaggi più belli che le siano mai stati tributati. Gli unici che hanno ragione di lamentarsi, se proprio si vuol essere oggettivi, sono gli eredi di Bruce Lee. Molti lo hanno criticato perché non è il solito Tarantino, a noi è piaciuto proprio per questo. Arrivare a questo punto della propria carriera e dimostrare di sapersi ancora reinventare è una cosa rara. Teniamocela stretta. Molti applausi a Cannes e, nell’anno del trionfo di Parasite, soltanto due premi Oscar (migliori scenografie a Barbara Ling e miglior attore non protagonista a Pitt).

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