Ad Astra

(Ad Astra)

Regia di James Gray

con Brad Pitt (maggiore Roy McBride), Tommy Lee Jones (H. Clifford McBride), Ruth Negga (Helen Lantos), Liv Tyler (Eve), Donald Sutherland (colonnello Pruitt), John Ortiz (generale Rivas), Donnie Keshawarz (capitano Lawrence Tanner), Greg Bryk (Chip Garnes), Loren Dean (tenente Stanford), John Finn (generale Stroud).

PAESE: USA, Cina 2019
GENERE: Fantascienza
DURATA: 123’

In un futuro non lontano, l’uomo ha esplorato gran parte del sistema solare interno. Quando la stabilità elettromagnetica della Terra è minata da alcuni misteriosi picchi di energia provenienti dall’orbita di Nettuno, il comando spaziale statunitense pensa che la causa sia riscontrabile nel malfunzionamento della base del progetto Lima, situata proprio nei pressi del settimo pianeta e della quale nessuno ha più notizie da 16 anni. Per provare a comunicare con la base il comando chiede aiuto al maggiore Roy McBride, figlio dell’uomo a capo del progetto Lima, che potrebbe essere ancora vivo. Il viaggio verso suo padre diverrà per Roy un viaggio alla ricerca di sè stesso…

Scritto da Gray con Ethan Gross, costato qualcosa come 90 milioni di dollari, rappresenta il tentativo – senza dubbio riuscito – di girare un kolossal fantascientifico intimista e filosofico, una space-opera ambiziosa e ricca di significati che lo stesso Gray ha paragonato ad una sorta di Cuorte di tenebra nello spazio. Il regista sembra prendere a modello la fantascienza esistenzialista e introspettiva degli ultimi anni (da Interstellar a Gravity, passando per il meraviglioso First Man) per riflettere ancora una volta sulla natura delle relazioni umane, ma questo Ad Astra non è affatto una copia di cose già viste, nè un polpettone senz’anima come lo ha definito qualcuno. Innanzitutto, vanta una delle rappresentazioni dello spazio più realistiche e precise mai viste al cinema, capace di meravigliare attraverso la bellezza delle singole immagini piuttosto che puntando sull’azione (quasi del tutto assente, o comunque mai risolutoria). In seconda istanza, solleva questioni profonde e non banali su chi siamo, cosa vogliamo (o meglio, cosa cerchiamo) e su cosa faremo una volta ottenuto quel qualcosa. E’ vero, lo fa con una didascalica voce fuori campo in stile Malick e in maniera talvolta un pò troppo meccanica, eppure è davvero difficile non emozionarsi ascoltando la storia (e i tanti timori) di Roy, coraggioso fuori ma insicuro dentro, incapace di relazionarsi con gli altri perchè – e qui potremmo tirare in ballo addirittura Freud – non ha mai risolto i conflitti irrisolti col padre, che è di fatto un’assenza più ingombrante di qualsiasi presenza. Roy ha bisogno di trovarlo per avere delle risposte, certo, ma anche e soprattutto per decidere che non diventerà mai come lui. Semplice psicologia pop? Può essere, ma presentata con grande classe in un film inaspettatamente meditativo, antispettacolare, eppure appagante per come riesce a trasmettere le meraviglie dello spazio. Il merito è anche (o soprattutto) dell’ottima regia di Gray, coadiuvata da due contributi tecnici di prim’ordine: la fotografia di Hoyte van Hoytema (abituale collaboratore di Nolan) e le musiche di Max Richter e Lorne Balfe. Ottima prova di Pitt. Fredda accoglienza da parte del pubblico.

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