La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentinolocandina

con Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Sabrina Ferilli (Ramona), Carlo Buccirosso (Lello Cava), Iaia Forte (Trumeau), Giovanna Vignola (Dadina), Pamela Villoresi (Viola), Galatea Ranzi (Stefania), Giusi Merli (Suor Maria), Giorgio Pasotti (Stefano), Roberto Herlitzka (Cardinale Bellucci), Serena Grandi (Lorena), Massimo Popolizio (Alfio Bracco), Isabella Ferrari (Orietta), Fanny Ardant (se stessa), Antonello Venditti (se stesso).

PAESE: Italia 2013
GENERE: Drammatico
DURATA: 142’

Jep Gambardella, scrittore con all’attivo un solo, grande romanzo, vivacchia nella Roma bene tra feste e iniezioni di botulino, dispensando cultura e dicendo agli altri come vivere la loro vita. In questo desolante clima di disumanità, alcuni incontri (una spogliarellista, una suora) lo fanno riflettere sulla propria condizione esistenziale e gli danno, forse, la voglia di scrivere ancora…

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Sesto film del napoletano Sorrentino, anche sceneggiatore con Umberto Contarello, il primo dopo la consacrazione mondiale ottenuta con This Must Be the Place. È un viaggio attraverso il disgusto, un vagabondaggio fisico e metafisico dentro una Roma assurda e dantesca. Come già accadeva ne La dolce vita, di cui questo La grande bellezza può parzialmente considerarsi – nonostante schiere di critici contrari – una sorta di seguito, la città di Roma serve al regista per accentuare quel divario tra la grandezza del nostro passato e l’infima, squallida piccolezza del nostro presente. Ne Il Divo c’era una mostruosità lombrosiana dettata dagli sposalizi con il potere, qui invece il potere non è più nemmeno un alibi: i ricchi della Roma bene non posseggono alcun potere, se non quello, evocato in una delle scene più belle, di fare le feste e di farle fallire. È una mondanità eccessiva, grottesca (come tutto il cinema del regista, del resto), senz’anima, fine a se stessa, tristemente meccanica nella sua continua riproposizione di clichè identici e decadenti, sconosciuta per i comuni mortali; Jep ne è il protagonista assoluto, in quanto ne è il promotore ma anche il più grande detrattore, come se quello schifo, dopo quarant’anni immerso nelle contraddizioni romane, fosse un qualcosa di assorbito e non sovvertibile. Gli unici a salvarsi sono coloro che se ne vanno (morendo, o semplicemente tornandosene a casa), oppure coloro che, come Jep alla fine, riscoprono il significato della grande bellezza. Che è poi, molto semplicemente, quello di riuscire a tornare al PRIMA, a quel tempo puro e indefinito che era l’esistenza prima del bla, bla, bla dello stile di vita della (chiamiamola così) borghesia italiana. È un film sulla morte, sull’addio, sulla fine delle cose, sul tempo. Tutte cose da cui, nemmeno se sei Jep Gambardella, è possibile salvarsi.

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Più che la bellezza, comunque, la sua cifra dominante è il vuoto. È un film che sembra non parlare di niente, perché è il niente a muovere l’esistenza dei suoi protagonisti. Qualche politico è riuscito a dire “speriamo che dopo aver visto questo film la gente voglia scoprire Roma”, senza capire che si tratta di un film in cui Roma, l’Italia, sono il nemico, e l’unica cosa da fare è starsene lontani il più possibile. La domanda più gettonata è: erano necessarie due ore e passa di film per arrivare a un finale il cui messaggio è torniamo con la mente alla giovinezza, in cui eravamo puri, e ritroveremo la voglia di vivere (e di scrivere, nel caso di Jep?). Si e no. Il film è evocativo nel suo rifiuto della narrazione, nel concepire scene scollegate tra loro che sono più che altro spazi mentali, simbolismi concettuali che suggestionano e aprono a letture assai personali; ciò che piace meno è l’esagerazione, riscontrabile un po’ dovunque: nei troppi rimandi intellettualistici, negli eccessivi virtuosismi formali (Sorrentino e il dolly oramai sono sposati), nei passi talmente criptici da risultare infine incomprensibili. Certo, il cinema deve, prima di tutto, donare sensazioni attraverso le immagini, e La grande bellezza lo fa sicuramente: il problema è quando quelle sensazioni diventano ambigue, troppo personali, incapaci di far andare d’accordo l’emozione e il significato recondito. Insomma, La grande bellezza è, da un certo punto di vista, un film che soffre di quell’andazzo concettuale, sociale, politico, che con distacco racconta.

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Le aberranti esagerazioni dell’Italietta post borghese andavano raccontate con uno stile forse più sobrio (ad esempio quello che Sorrentino aveva sfoggiato abilmente ne Le conseguenze dell’amore), e non icline all’esagerazione come invece è accaduto. Non si può raccontare l’esagerazione (sociale) con l’esagerazione (filmica), perché si finisce per stordire l’ascoltatore. La colpa non è certo del Sorrentino regista (si può rimproverare ad un regista di creare immagini TROPPO belle?), quanto del Sorrentino sceneggiatore, che a furia di strafare stanca. Resta comunque un buon film, superiore, almeno a livello concettuale, alla stragrande maggioranza dei film italiani che riempiono le sale oggi. Il merito è anche e soprattutto di una schiera di contributi tecnici invidiabili: dalle prove degli attori (che piacevole sorpresa la Ferilli!) alla fotografia di Luca Bigazzi, dal montaggio di Cristiano Travaglioli alle bellissime musiche di Lele Marchitelli. Come spesso accade nei film del regista, la discoteca rimane il simbolo perfetto della decadenza umana. Si può dargli torto? Dopo la vittoria agli Oscar come miglior film straniero e la trasmissione su Canale 5, il popolo italiano (specialmente quello informatico) si è diviso in due tra chi lo idolatrava come capolavoro e chi lo definiva, in perfetto stile fantozziano, una cagata pazzesca. Come al solito, a noi italiani il grigio non interessa, o vediamo bianco o vediamo nero. E ancora una volta non siamo stati in grado di capire che, in questo caso, la ragione stava proprio nel mezzo. Non è un capolavoro, ma sicuramente è un bel film. Come se ne fanno sempre meno.

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