Il fascino discreto della borghesia

(Le charme discret de la bourgeoisie)

Regia di Luis Buñuel

con Fernando Rey (Rafaël Acosta), Paul Frankeur (François Thevenot), Delphine Seyrig (Simone Thevenot), Milena Vukotic (Inés), Jean- Pierre Cassel (Henri Sénéchal), Stéphane Audran (Alice Sénéchal), Julien Bertheau (Monsignor Dufour), Bulle Ogier (Florence), François Maistre (il commissario), Maria Gabriella Maione (la guerrigliera), Claude Pieplu (il colonnello), Michel Piccoli (il ministro).

PAESE: Spagna, Francia, Italia 1972
GENERE: Grottesco
DURATA: 105’

Per i Thevenot e i Sénéchal, due famiglie della buona borghesia francese, non c’è nulla di più difficile che cenare insieme: ogni volta che si siedono a tavola, qualcuno – la polizia, l’esercito, un monsignore, degli assassini – interrompe la loro serata e gli impedisce di portare a termine il pasto…

Scritto col fido Jean-Claude Carrière, il trentesimo film del settantaduenne Buñuel è un compendio di tutto il suo cinema: c’è il surrealismo degli esordi (impagabile la sequenza del “ristorante col morto”), c’è l’impossibilità di distinguere la realtà dal sogno (i personaggi sognano altri personaggi che sognano), c’è il cinico ed irridente sguardo verso una borghesia parassitaria e indefinita, bulimica e astratta ma, inspiegabilmente, ancora capace di influenzare le classi “inferiori”. La trovata – geniale – del pranzo continuamente interrotto è una metafora riuscita sull’inconcludenza di una borghesia che non persegue più alcuno scopo se non quello, fine a se stesso, di continuare ad esistere. Che senso ha incontrarsi per cenare se non si mangia? Che senso ha continuare a ostentare una classe sociale che non ha obbiettivi né funzioni? Il regista non si beffa soltanto della borghesia, bensì anche di quegli apparati che la proteggono e la lasciano esistere: chiesa, esercito, polizia, politica. Senza però credere in una vera rivoluzione: pensa piuttosto ad “un’autocombustione”, come dimostrano gli inserti in cui si vedono i protagonisti camminare senza una meta: non vanno da nessuna parte, e prima o poi la sola inerzia non gli basterà più per sopravvivere. Il sogno, questa volta, cessa di essere fuga dalla realtà e diventa strumento privilegiato per comprenderla. Buñuel disgrega il tempo rendendolo ripetitivo, sceglie fluidi movimenti di macchina sdegnando il montaggio e rifiuta qualsiasi identificazione dello spettatore coi personaggi (non c’è una sola inquadratura soggettiva). Opta per un realismo allegro che cela tuttavia la surreale ipocrisia borghese (i dialoghi da galateo nascondono azioni oscene dei protagonisti) e tratteggia in modo laconico una società che ha perso il senso delle cose e condensa nell’inutilità la sua ragion d’essere. La costruzione narrativa è perfetta, e ogni sogno viene inserito nella storia rispettando coerentemente il racconto. Cerebrale? Forse. Troppo parlato? Sicuramente. Ma questa sorta di testamento artistico di Buñuel lascia ancora oggi sorpresi per come, utilizzando il fioretto dell’ironia, riesce a proporre un disincantato – ma divertito – sguardo sui tempi che corrono. Ridendoci sopra, certo, ma senza mai dimenticare che dietro ogni riso si cela la profonda tristezza per un mondo che sta andando a rotoli. Senza che nessuno faccia niente per impedirlo. Si aggiudicò il premio Oscar per il miglior film straniero e, per una volta, pubblico e critica si trovarono concordi sul suo indiscusso valore. E’ forse il canto più alto e maturo dell’opera di Buñuel. Da non perdere.

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