Un giorno di ordinaria follia

(Falling Down)

Regia di Joel Schumacher

con Michael Douglas (William Foster/ D- Fens), Robert Duvall (Martin Prendergast), Barbara Hershey (Elisabeth “Beth” Travino), Rachel Ticotin (Detective Sandra Torres), Frederic Forrest (Nick, proprietario del negozio di armi), Tuesday Weld (Amanda Prendergast), Joey Hope Singer (Adele Foster), Lois Smith (signora Foster), Michael Paul Chan (Mister Lee), Raymond J. Barry (Capitano Yardley).

PAESE: USA 1993
GENERE: Drammatico
DURATA: 113’

Los Angeles, giorni nostri. Imbottigliato nel traffico sotto il sole cocente, il bianco William Foster impazzisce: deciso a tornare a casa a piedi, attraversa la città lasciandosi dietro una scia di violenza inaudita. Cerca di fermarlo un vecchio agente di polizia, all’ultimo giorno di servizio…

Scritto da Ebbe Roe Smith, divenuto un cult movie specialmente in Europa, il settimo film dell’altalenante Schumacher mette in scena la vendetta dell’americano medio (confuso, sottomesso, calpestato, odiato) contro una società mostruosa e fagocitante colma di contraddizioni e difetti. Quella del protagonista è una discesa negli inferi della giungla metropolitana, in cui regnano frenesia, follia, ipocrisia, individualismo forsennato. La pazzia di Bill Foster, in confronto a quella della gentaglia che incontra, sembra la normalità, e l’orrore del quotidiano si mostra ben peggiore di qualunque guerra combattuta in un paese straniero. Il film ha ben più di un difetto: personaggi estremamente caricaturali, talmente esasperati nelle loro caratteristiche negative da incontrare facilmente lo stereotipo; una seconda parte in cui il ritmo, rispetto alla prima, si affievolisce e lascia il posto a sviluppi convenzionali; un messaggio finale accomodante (e un po’ qualunquista), in cui Bill viene condannato senza riserve come se si potesse parlare di “giusto” o “sbagliato” nella follia: lui diventa il cattivo perché è un debole, mentre Prendergast è il buono perché forte di spirito, il che porta ad una considerazione, se non errata, poco approfondita. Detto questo, però, il film colpisce e resta impresso per ben più di una ragione. Innanzitutto per come costruisce una suspense tangibile che tiene col fiato sospeso e permette allo spettatore di immedesimarsi talvolta con Bill, talvolta con Prendergast. Ogni personaggio incontrato da Bill, pur esasperato, mantiene intatta la sua carica simbolica e traghetta lo spettatore all’interno di un sogno americano divenuto un incubo, popolato di vecchi golfisti arroganti e giovani e sorridenti cassiere dei fast food, di integralisti politici morbosi e terrificanti e gang di poveracci che uccidono senza nessuna remora.

Tra un Duvall sotto le righe e un Douglas sopra, vince probabilmente il primo, impegnato in un personaggio malinconico e dallo sguardo “morale” che a volte manca nel cinema americano. Tanto criticata, specialmente in patria, la regia di Schumacher regge bene la follia del protagonista, e basterebbe indicare la perfezione della scena d’apertura (in cui “inizia” la pazzia) per capire che non si tratta di uno sprovveduto. Senza dimenticare che non è mai facile girare film (come questo) in cui sono rispettate le tre unità aristoteliche del racconto (tempo, luogo, azione). Lo aiutano la fotografia afosa e “sudata” di Andrzej Bartkowiak e il montaggio convulso di Paul Hirsch. Una volta tanto il titolo italiano è più suggestivo di quello originale (che si riferisce alla filastrocca London Bridge is Falling Down, ascoltata dai protagonisti, ma che significa anche “cadere”, “non farcela più”). Almeno due sequenze da antologia: quella del campo da golf (“qui ci dovrebbero venire le famiglie a fare i pic-nic!”) e quella nel McDonald’s. Musiche di James Newton Howard. In America è stato attaccato dalla comunità koreana (per la scena del negoziante che tiene i prezzi troppo alti) e da quella – sic – dei disoccupati (per la scena con il ragazzo senza lavoro che chiede l’elemosina, rappresentato come un parassita). Ma anche la critica l’ha irrimediabilmente stroncato, come sempre accade coi film che attaccano le basi sociali di un paese cui piace sentirsi dire che va tutto bene. Sarà anche un po’ qualunquista, ma di certo non è pericoloso come qualcuno ha stupidamente affermato.

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