The Artist

(The Artist)

Regia di Michel Hazanavicius

con Jean Dujardin (George Valentin), Bérénice Bejo (Peppy Miller), John Goodman (Al Zimmer), James Cromwell (Clifton), Penelope Ann Miller (Doris), Missi Pyle (Constance), Joel Murray (poliziotto), Ed Lauter (maggiordomo), Malcolm McDowell (uomo al provino), Beth Grant (governante di Peppy).

PAESE: Francia 2011
GENERE: Commedia
DURATA: 100’

Ascesa, caduta e riscatto della star del muto George Valentin, che non riesce ad ambientarsi nel cinema sonoro e rischia grosso dandosi all’alcol e vivendo in miseria. Ha come unici amici un cane e un vecchio autista, e ama segretamente la diva Peppy Miller, ex comparsa che ha contribuito inconsapevolmente al suo fallimento…

In un periodo storico che vive di tre dimensioni e urla in stereo surround, questo The Artist, di un regista- sceneggiatore francese sconosciuto in Italia, non può che rappresentare, anche per chi non l’ha apprezzato, una coraggiosa ventata di novità. E qui il paradosso: può essere innovativo un film in bianco e nero, muto, ambientato negli anni ’30 che “parla” un linguaggio filmico caduto in disuso da almeno 80 anni? La risposta, secondo noi, è positiva: Hazanavicius gira il primo film muto che guarda con ironia critica il cinema dell’età dell’oro di Hollywood (quando il cinema era muto per forza di cose), e lo fa utilizzando le tecniche che quel cinema l’avevano reso, oltre che riconoscibile, grande. Mette in scena una fase capitale della storia del cinema in modo affascinante: anche quando gli attori diventano “parlanti”, il silenzio rimane perché “muto” (in senso non letterale, bensì cinematografico) è il protagonista della vicenda; il film di Hazanavicius, insomma, è senza suoni anche quando il film nel film (quello di Valentin) diventa sonoro. Se ad un bambino di cinque anni, astemio di cinema, si mostrassero in sequenza Il monello e The Artist, probabilmente non noterebbe nessuna differenza “di stile”. È un canto d’amore orgogliosamente anacronistico verso le pellicole di una volta; un compendio meta- cinematografico sul potere dell’immagine e sul ruolo preponderante dell’autore; uno strepitoso divertimento per gli occhi, più cinematografico che cinefilo (per fortuna); ed è anche – e qui si vede la grandezza del cineasta – uno spettacolo che tocca il cuore di qualunque tipo di pubblico, da quello “popolare” a quello colto, che godrà nell’annotare le citazioni – mai invasive – di molti altri, grandi capolavori: l’introduzione richiama infatti il prologo di Cantando sotto la pioggia (col divo simpatico che non lascia un briciolo di gloria alla diva antipatica), e sono molte le sequenze che strizzano l’occhio alla cinematografia mondiale (da Lang a Keaton, passando addirittura per il neorealismo italiano).

Ma ciò che colpisce è la straordinaria vicinanza “poetico- concettuale” tra Hazanavicius e i suoi più espliciti maestri, come dimostrano due scene eccezionali come quella del “ballo delle gambe”, che potrebbe essere stata tranquillamente partorita dalla mente di Charlie Chaplin, e quella – forse la migliore del film – in cui l’attore Valentin ha un incubo in cui tutto emette suoni tranne la sua bocca, con uno spirito ironico- critico degno di Tati. A dimostrazione del fatto che quella del quarantenne regista francese non è affatto un’operazione gratuita, un’altra sfilza di scelte coraggiose (oltre al b/n e al muto) anche per quanto riguarda la forma: dalla scelta di girare in formato 1:33 come si faceva una volta (schermo più quadrato che rettangolare) all’utilizzo di dissolvenze antiche come il cinema (l’iride, la tendina), dal camaleontico virtuosismo registico atto ad imitare grandi “movimenti” cinematografici del passato (superba la sequenza, costruita su un puro montaggio connotativo alla Ejzenstejn, in cui George trova la stanza segreta di Peppy) alla capacità di rileggere in modo originale stereotipi filmici vecchi cent’anni (si veda il sorprendente montaggio alternato alla Griffith, nel sottofinale). Le critiche negative non sono mancate, ma a dirla tutta non è difficile controbattere e renderle nulle. Chi lo attacca perché, in fin dei conti, si basa su una struttura narrativa obsoleta (ascesa, caduta, riscatto dell’eroe) non ne ha compreso lo spirito di fondo: Hazanvicius rielabora vecchi stereotipi, ma per farlo ha bisogno di quegli stereotipi stessi. Che, nel bene e nel male, hanno creato nel pubblico l’amore per la settima arte. Per quanto riguarda invece il cagnolino Fox Terrier di Valentin, che protegge e ama incondizionatamente il suo padrone, in molti hanno parlato di “elemento smielato non necessario”, di “caduta di stile che fa del sentimentalismo facile”; senza ricordare che, ai tempi di Chaplin, il “patetico” era un elemento obbligato, doveroso, e dunque coerente col film di Hazanavicius che di quei tempi vuole essere omaggio e specchio fedele.

Perfetta la sceneggiatura del regista, impregnata di un surrealismo lirico che fa emozionare; perfetti sono gli attori, da Dujardin a Goodman, da Cromwell alla Miller, anche se una menzione speciale va alla bellissima, dolce, strepitosa Bejo, moglie del regista che porta alla memoria la tenerezza di Paulette Goddard; perfetta è la fotografia di Guillaume Schiffman, capace di utilizzare tutte le sfumature che il bianco e nero è ancora in grado di offrire. Belle musiche, tra classica e jazz, di Ludovic Bource. Costato 14 milioni di dollari, girato in 35 giorni a Los Angeles in luoghi “leggendari” (la casa di Peppy fu residenza di Mary Pickford). Distribuito in malo modo, specialmente in Italia (forse perché i nostri distributori hanno avuto paura ad investire su un film muto), si è consolato con cinque tra gli Oscar più importanti (film, regia, protagonista, costumi, colonna sonora) e con una serie infinita di premi ed elogi. Un film divertente, frizzante, poetico, da non perdere. Specialmente per chi ama ancora l’atmosfera straordinaria di una sala buia.

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