The day after tomorrow – L’alba del giorno dopo

(The Day After Tomorrow)

Regia di Roland Emmerich

con Dennis Quaid (Jack Hall), Jake Gyllenhaal (Sam Hall), Emmy Rossum (Laura Chapman), Dash Mikoh (Jason Evans), Jay O. Sanders (Frank Harris), Sela Ward (Lucy Hall), Austin Nichols (J. D.), Ian Holm (Terry Rapson), Arjay Smith (Brian Parks), Tamlyn Tomita (Janet Tokada), Sasha Roiz (Parker), Robin Wilcock (Tony), Nestor Serrano (Gomez), Richard McMillian (Dennis), Glenn Plummer (Luther), Kennet Welsh (Vicepresidente Becker), Adrian Lester (Simon).

PAESE: USA 2004
GENERE: Catastrofico
DURATA: 125′

Il professor Jack Hall scopre che, a causa del surriscaldamento globale, l’emisfero boreale sarà colpito da una gigantesca tempesta, cui farà seguito una nuova glaciazione. I politici non gli credono, ma lui continua per la sua strada e parte per salvare il figlio, intrappolato nella biblioteca di New York. Tutto ciò che aveva predetto, ovviamente, avviene, e l’unico modo per salvarsi è raggiungere le nazioni a sud del mondo…

L’undicesimo film del tedesco – naturalizzato americano – Emmerich è un ennesimo kolossal catastrofico di fantascienza (o anticipazione?) che opta questa volta per una nuova glaciazione. Grande successo di pubblico, critiche negative a valanga: tutto come al solito, ma è davvero giusto attaccarlo anche questa volta? Secondo noi no. Innanzitutto perché Emmerich è l’unico regista di kolossal che è anche a suo modo un autore: produce, scrive, dirige, inserisce elementi che, pur nella loro banalità, sono costanti nel suo cinema (come il fatto che serva la fine del mondo per ricucire famiglie in crisi); poi ci sono i moniti ecologisti, che sembrerebbero demagogici se non fosse che il regista ha pagato di tasca sua 200mila dollari di alberi che annullassero le emissioni inquinanti della troupe; c’è una particolare attenzione per il valore della cultura, che si evidenzia nei passi ambientati in biblioteca (la culla del sapere in cui si rifugiano i protagonisti). Certo, non mancano le solite banalità e le inverosimiglianze, ma indubbiamente il film coinvolge ed emoziona: non conta più se ciò che si vede è possibile o meno, quanto il fatto che esso provochi adrenalina. Se questo era l’obbiettivo, il film ci riesce benissimo. Emmerich è più vicino a Tarantino che a Michael Bay: i suoi film sono costruiti su universi filmici personali, così lontani dalle leggi che regolano la realtà (salvataggi all’ultimo minuto, buoni sentimenti, lieto fine) eppur così inseriti in essi da risultare “veri”, quotidiani, quasi epici.

Grandiosi effetti speciali ben coordinati (Industrial Light and Magic), buon cast (a parte Gyllenhaal, fuori parte: sembra abbia dieci anni di più di quanti ne richiedesse il ruolo) e una regia “corale” che accumula diversi punti di vista. Che poi siano, sempre e comunque, punti di vista molto “occidentali”, è innegabile, ma che dire del finale in cui gli statunitensi devono riparare in Messico perché lo stato non viene colpito dalla glaciazione? I messicani aprono le frontiere ai “nuovi clandestini”, coloro che fino al giorno prima gli avrebbero sparato per aver valicato il confine. Anche questa sarebbe una lezione banale? La figuraccia, a differenza dei precedenti film di Emmerich, qui la fanno proprio gli americani. Un film sincero ed accorato? Forse sì, forse no, ma è innegabile comunque che intrattenga e faccia pensare solleticando l’intelligenza. È interessante notare come Emmerich, a nemmeno dieci anni dal fascistoide Independence Day, abbia girato un film che piacerà certamente di più ai democratici. Come succede spesso in questo genere di film, comunque, il cinquanta per cento del suo fascino deriva dal vedere i monumenti più famosi colpiti dall’apocalisse: un’apocalisse ghiacciata che non si era ancora vista, ma che è forse la meno improbabile mai rappresentata.

Occhio a come trattiamo il clima, dunque: come si sente nei dialoghi del film, “non è per noi, è per i nostri figli”.

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